martedì 28 settembre 2010

Lavoro e lavoratori

Charlie Chaplin in MODERN TIMES

Approfitto del commento nel post "Bersani in Piazza Castello a Torino" per provare ad affrontare il tema della differenza tra lavoro e occupazione.
Dopo qualche ricerca ho trovato i dati necessari sul sito dell'ISTAT, ed il grafico sottostante mostra l'evoluzione delle curve di lavoro ed occupati nel corso della II Repubblica.

ULA e occupati nel corso della II Repubblica

Le ordinate sono espresse in migliaia di persone.
La quantità di lavoro è indicata in ULA (Unità di Lavoro Annuali), ed indica quante persone dovrebbero lavorare per un anno per far funzionare l'economia pubblica e privata del Paese.
Gli occupati sono semplicemente i lavoratori. Ovviamente il lavoro nero, triste piaga della società italiana, non è qui conteggiato.
Considerando di volta in volta la variazione percentuale sull'anno precedente, nel corso della II Repubblica solo nel 1995 e nel 1997 si è assistito ad un incremento delle ULA maggiore di quello dell'occupazione, e solo per quattro anni, nell'intervallo 2000-2002 e nel 2006, le ULA sono salite di una quota superiore all'1%, permettendo di parlare di vera espansione economica.

Quando le ULA sono maggiori dei lavoratori significa che la domanda di manodopera da parte delle imprese non può essere soddisfatta dall'offerta dei lavoratori. Questi diventano quindi merce altamente richiesta, ed eventuali nuovi ingressi nel mondo del lavoro vengono rapidamente assorbiti. Le aziende sono in concorrenza tra loro per accaparrarsi i lavoratori disponibili.
Quando invece le ULA sono inferiori rispetto ai lavoratori significa che si è in presenza di sovraoccupazione, dai classici posti a ufo ai lavori part-time, tali per cui servono più lavoratori per avere un'ULA. In questa situazione il coltello dalla parte del manico non ce l'hanno più i lavoratori, ma le imprese: la sovrabbondanza di lavoratori fa calare il potere contrattuale degli occupati, che si ritrovano quindi in concorrenza tra loro per i posti disponibili.
Rispetto al grafico, come accennato, occorre tenere in considerazione l'incidenza del lavoro nero: bisogna immaginare una fascia di occupati ulteriore rispetto a quella disegnata dai dati ufficiali, occupati a buon mercato e senza tutele che di fatto abbattono diritti e potere contrattuale di tutta la classe lavoratrice italiana.

Come si vede, nel 2005 gli occupati hanno superato le ULA, mentre nel 2008 e nel 2009 sulla spinta della crisi internazionale prima le ULA e successivamente anche i lavoratori hanno iniziato a scendere di numero. I fallimenti, le delocalizzazioni, le ristrutturazioni aziendali che hanno costellato gli ultimi due anni hanno fatto diminuire la quantità di lavoro totale disponibile in Italia, e con essa hanno iniziato a scendere anche gli occupati.
Poiché l'indice dei lavoratori, fatti salvi naturalmente i casi di part-time, tende ad inseguire quello ULA, è lecito aspettarsi per la fine del 2010 un ulteriore vistoso calo del numero di occupati rispetto all'anno precedente.

Da questo grafico si evince anche come politiche destinate unicamente all'incremento dell'occupazione senza preoccuparsi della creazione di nuovo lavoro siano destinate inevitabilmente al fallimento. Si tratta infatti di scelte meramente palliative, che non fanno altro che creare posti di lavoro fittizi, non corrispondenti ad alcuna attività realmente produttiva, oppure spezzare il lavoro esistente tra più persone.
Queste politiche non tentano in sostanza di risolvere veramente il problema della reale produzione di valore, e anzi appiattiscono a lungo termine verso il basso le condizioni di lavoro, in aperto contrasto agli ideali dell'Articolo 4 della Costituzione.

Il punto cruciale su cui intervenire è quindi riportare l'indice ULA al di sopra dell'indice degli occupati. Per fare questo si deve intervenire in primo luogo sull'aumento delle ULA stesse, premiando le aziende che non delocalizzano e anzi incentivando la localizzazione in territorio italiano di imprese estere, favorendo il credito d'imposta sulle nuove imprese, agevolando l'imprenditoria soprattutto giovanile e spostando il carico fiscale dal lavoro alla rendita.
Parallelamente a tali interventi è vitale abbattere la fascia di lavoro nero.
Una provocazione: vogliamo considerare come imprese italiane non quelle che pagano semplicemente le tasse nel nostro Paese, ma quelle che producono e danno lavoro nel nostro territorio?

1 commento:

  1. Spostare il carico fiscale sulla rendita, per quanto oggi difficile, sarebbe una buona soluzione. Premiare le aziende che non delocalizzano la vedo più difficile, vorrebbe dire entrare in competizione diretta con colossi come Cina e India e a lungo andare lo Stato non reggerebbe. Tanto varrebbe a questo punto considerare italiane solo le imprese che creano sviluppo nel Paese, piuttosto che quelle che si limitano a pagare le tasse.

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