giovedì 28 ottobre 2010

L'acqua pubblica secondo il PD

Acqua, bene comune dell'umanità

In una conferenza stampa tenutasi a Roma il 21 ottobre il Segretario del Partito Democratico Pierluigi Bersani ha presentato una proposta di legge intitolata Disposizioni per il governo della risorsa idrica e la gestione del servizio idrico integrato, che riassume la posizione del PD sul tema dell'acqua e costituisce una risposta sia alla proposta del centrodestra di privatizzazione forzata della gestione dell'acqua (Decreto Legge 135/2009, convertito in Legge 166/2009), sia alle istanze referendarie di ri-pubblicizzazione di tali risorse (Quesito 1 - Quesito 2 - Quesito 3) proposte dalle società civile.




L'evento ha riportato in auge le vecchie ruggini tra il Partito Democratico ed il comitato referendario: per Bersani un referendum è una pars destruens senza pars construens, serve a rimuovere una legge senza metterne un'altra al suo posto; inoltre, il rischio di non raggiungimento del quorum, così come è accaduto per le ultime consultazioni, avrebbe nell'agone politico un effetto boomerang rispetto alle ragioni del comitato promotore.
Quest'ultimo, in un articolo sul proprio spazio web, replica ricordando a Bersani la proposta di legge di iniziativa popolare sulla gestione dell'acqua, lo strumento complementare al referendum per blindare la gestione pubblica dell'acqua.
In realtà tale proposta (Atto 2 alla Camera dei Deputati) giace dimenticata in Commissione Ambiente dal 22 gennario 2009, e non ci sono molte possibilità che la maggioranza parlamentare, malgrado gli appelli del comitato al PD, la calendarizzi nel prossimo futuro.

La proposta di legge del Partito Democratico ha tuttavia maggiori speranze nel corso del suo iter parlamentare?
Dal punto di vista dei contenuti, essa si pone a metà strada tra la riforma operata dal centrodestra e la proposta di legge di iniziativa popolare presentata da AcquaBeneComune, quindi ipoteticamente potrebbe raccogliere il consenso dei delusi del centrodestra.
Indipendentemente dalla fortuna di questo ddl, tuttavia, è importante sottolineare il fatto che il Partito Democratico si è messo in gioco con una proposta articolata che ne rappresenta il pensiero e le opinioni, permettendo di comprendere la reale posizione del partito sul tema.

Il ddl del Partito Democratico sarà sottoposto nell'immediato futuro al giudizio e alle proposte degli iscritti al partito, degli amministratori locali, delle associazioni ambientaliste e di quelle dei consumatori: la versione presentata costituisce l'idea del Partito e come tale deve essere analizzata, ma è bene ricordare, anche per dare un giudizio di metodo sull'operato del PD, che prima della presentazione in Parlamento è probabile che il testo sia modificato in qualche dettaglio per recepire le istanze della società civile.

Il tentativo di fondo della proposta del Partito Democratico consiste nel coniugare l'idea dell'acqua come bene comune dell'umanità (Art. 2, comma 1) e del servizio idrico come servizio di interesse economico generale (Art. 7, comma 1).
Il modo in cui il Partito Democratico tenta di superare la dicotomia senza cadere nel cerchiobottismo opera sostanzialmente in due direzioni. In primo luogo l'istituzione delle Aato (Assemblea di ambito territoriale ottimale), delle vere e proprie assemblee a livello comunale, provinciale o regionale relative a territori che scelgono di gestire la risorsa idrica nella medesima maniera. Ogni Aato sarà formata dai sindaci dei comuni coinvolti, ed avrà il potere di fissare la tariffa massima prevista per i cittadini, gestire la concessione del servizio in termini di assegnazione, rinnovo e revoca, disporre degli investimenti infrastrutturali e inviare le richieste di perequazione a livello nazionale all'Autorità apposita. Proprio tale Autorità, definita Autorità Nazionale di Regolazione del Servizio Idrico, costituisce la seconda gamba della proposta di legge: essa dovrà valutare il raggiungimento degli obiettivi minimi fissati a livello nazionale, gestire i processi valutativi dei gestori del servizio, stabilire a livello nazionale la necessità e l'urgenza degli interventi sulla rete territoriale e valutare la gestione delle Aato in termini di trasparenza e coinvolgimento della cittadinanza.
Le concessioni autorizzate dalle Aato potranno cadere in mano a enti pubblici, privati o misti, e in questo passaggio ha quindi ragione il comitato referendario ad affermare che la proposta di legge del Partito Democratico non costituisce un impedimento alla privatizzazione.
Una percentuale delle tariffe, inoltre, verrà destinata ad un fondo di perequazione, gestito dall'Autorità, utilizzato per gli interventi necessari sulla rete idrica allo scopo di garantire ovunque il raggiungimento degli standard minimi di servizio. Vi sono poi infine alcuni provvedimenti di corollario, come l'introduzione di tariffe agevolate per i redditi più bassi e per le famiglie numerose.

Il PD non chiude quindi alla gestione privata, come il comitato referendario, né la impone, come la legge approvata dal centrodestra. La scelta della società di gestione spetta alla Aato, secondo gli obiettivi da essa stessa prefissati e con le metodologie di trasparenza previste dalla legge (Art. 9).

Ideologicamente la proposta democratica si pone quindi lontana dalla proposta di iniziativa popolare depositata alla Camera: la gestione del servizio idrico può essere utilizzata come fonte di profitto, può essere demandata all'iniziativa privata ed, essendo un servizio, è soggetta ad una tariffa che va al di là della semplice copertura dei costi.

Sulla carta il ddl del PD risulta essere, tra i tre, quello meno ideologico e più liberale: sono le comunità locali, ciascuna con le proprie esigenze, a scegliere la forma di distribuzione dell'acqua più efficiente; sono le comunità locali a scegliere la tariffa massima che un cittadino può pagare per tale servizio, e il profitto di un'azienda, non potendo agire liberamente sul costo all'utente finale, deve passare necessariamente dall'efficienza; è un'Autorità nazionale, infine, a valutare la qualità del servizio sia dei gestori sia delle Aato e a definire gli standard minimi che devono essere garantiti ai cittadini.
Proprio tale delega alle comunità locali, tuttavia, rende il ddl più debole rispetto alla proposta di legge del comitato referendario: da un lato abbiamo infatti una legge che fissa parametri precisi, dall'altra una legge che stabilisce che tali parametri devono essere decisi da un'assemblea.
L'Autorità saprà agire in maniera imparziale, essendo composta in parte da persone indicate dal mondo politico nazionale ed in parte da rappresentanti delle amministrazioni locali, senza presenze da parte della società civile? Non si rischia di mettere nel ruolo di controllori persone che hanno interessi nel campo della gestione dell'acqua, solo perché hanno gli agganci giusti?
Nella proposta di legge del PD ci sono alcuni passaggi che mostrano come il problema sia stato preso in esame: per quanto riguarda l'Autorità non sono possibili le riconferme, e i suoi componenti non possono esercitare, direttamente o indirettamente, alcuna attività professionale o di consulenza, essere amministratori o dipendenti di soggetti pubblici o privati né ricoprire altri uffici pubblici di qualsiasi natura, ivi compresi gli incarichi elettivi o di rappresentanza nei partiti politici né avere interessi diretti o indiretti nelle imprese operanti nel settore di competenza della medesima Autorità; inoltre per almeno tre anni dalla cessazione dell'incarico i componenti dell’Autorità non possono intrattenere, direttamente o indirettamente, rapporti di collaborazione, di consulenza o di impiego con le imprese operanti nel settore di competenza.
Resta invece aperto il problema delle comunità locali. I sindaci sceglieranno la tariffa migliore per i cittadini, oppure quella più comoda per l'azienda dell'amico, o per l'azienda portatrice di voti? Sceglieranno l'azienda che fa l'offerta migliore per i cittadini, o quella che fa l'offerta migliore per loro? Il PD rimanda alle generiche regole in voga per i contratti tra privato e pubblico, senza istituire specifiche discriminanti di ammissione delle società alle gare d'appalto, e sostanzialmente affidando la buona amministrazione dell'acqua all'onestà delle Aato e agli strumenti di trasparenza offerti dalla legge: dovendo essere resi pubblici i criteri di scelta negli appalti, e potendo la cittadinanza presentare esposti direttamente all'Autorità si creerebbe, negli auspici del PD, un sistema di autoregolamentazione in grado di assicurare un comportamento virtuoso. In realtà, poiché questa formula non si discosta molto dagli strumenti attuali, l'assenza di regole specifiche è una grave carenza della proposta di legge, una carenza che in realtà alcuni critici vedono come un favore alle cosiddette "municipalizzate rosse".

Il ddl scivola quindi su alcuni dettagli di primaria importanza: oltre all'assenza di limitazioni precise all'accesso alle gare di assegnazione delle concessioni di cui sopra mancano infatti accorgimenti specifici che spronino all'efficienza: ad esempio, perché non far pagare alle concessionarie l'acqua estratta dalla fonte, invece di quella consegnata ai cittadini? In questo modo le perdite delle strutture sarebbero a carico del concessionario, che avrebbe tutto l'interesse ad una rete idrica efficiente... Puntare solo sul tetto tariffario massimo fissato dalla Aato è un azzardo sul portafoglio dei consumatori. È da augurarsi che, come spesso accade al Partito Democratico, le decisioni della società civile possano limare gli aspetti peggiori della proposta politica di questa formazione.
Il ddl presentato dal PD ha tuttavia l'ambizione di ridisegnare in maniera profonda la gestione delle risorse idriche sul suolo italiano; ha l'ambizione di superare le ideologie pubblico/privato per sostituire ad esse un metro basato unicamente sull'efficienza; ha l'ambizione di realizzare un federalismo idrico, in cui lo Stato fissa i parametri minimi di servizio e agisce come strumento di perequazione in favore delle realtà più disagiate, e consente a chi ha strumenti e possibilità di fare meglio.

Seppure in sordina, seppure con non trascurabili note stonate, il Partito Democratico tenta quindi di essere quello che Bersani ha ribadito più volte nei suoi interventi: un partito che, seppure all'opposizione, non approfitta di tale ruolo con proposte utopistiche e demagogiche, ma tenta di disegnare il Paese attraverso interventi mirati e realizzabili.

martedì 26 ottobre 2010

Il giallo del decreto "ad Legam"

Il Ministro della Semplificazione Normativa
Roberto Calderoli (Lega)

Il Governo Berlusconi IV, insediatosi a seguito delle elezioni politiche 2008, ha introdotto la figura del Ministero della Semplificazione Normativa, presieduto dal leghista Roberto Calderoli, come strumento per eseguire una revisione ed una riduzione delle norme vigenti in Italia.
L'ambito di azione del Ministero è contenuto in due leggi delega: la prima, la Legge Delega 246/2005, consente al Governo di sopprimere le leggi antecendenti il 1° gennaio 1970 di cui non è ritenuta indispensabile la permanenza in vigore; la seconda, la Legge Delega 69/2009, permette invece di cancellare le leggi successive al 1970 "oggetto di abrogazione tacita od implicita", ovvero quelle leggi considerabili obsolete in quanto mai applicate o sostituite da altre norme.

Fino ad oggi sono stati approvati in materia due decreti legislativi, il Decreto Legislativo 179/2009, che elenca una lista di leggi antecedenti il 1970 da mantenere in vigore, ed il Decreto Legislativo 66/2010 di riforma del Codice dell'Ordinamento Militare.

Proprio quest'ultimo intervento ha scatenato recentemente una serie di polemiche che hanno fatto parlare del provvedimento come di una norma "salva-Lega".
Nell'articolo 2268 del Decreto Legislativo 66/2010, infatti, viene abrogato il Decreto Legislativo 43/1948, che stabiliva le pene per la promozione, costituzione, organizzazione e direzione di associazioni di carattere militare a scopo politico anche indiretto che facessero uso di violenza o minaccia, reato sancito addirittura dalla Costituzione.
L'Italia dei Valori ha richiesto una rettifica del Decreto Legislativo 66/2010 prima della sua entrata in vigore il 9 ottobre 2010, ma a tale data il testo è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale senza alcuna correzione.

La cancellazione del Decreto Legislativo 43/1948 comporta la depenalizzazione del reato sopra descritto, e questo ha un effetto immediato sul processo a carico di trentasei esponenti della Lega Nord: attraverso una serie di intercettazioni telefoniche era infatti emerso che la Guardia Nazionale Padana, la "milizia" leghista attiva negli anni '90, doveva tenersi pronta per l'organizzazione della resistenza armata e per la pianificazione della secessione del Nord Italia. Anche se il fatto è stato commesso in un periodo in cui il Decreto Legislativo 43/1948 era in vigore, la conversione in legge anche per un solo giorno del Decreto Legislativo 66/2010 consente agli imputati, per il principio del favor rei, di essere giudicati con la legislazione ad essi più favorevoli: nel caso in questione, una legislazione tale per cui non è prevista alcuna pena per il reato in questione a causa del vuoto legislativo creatosi proprio dall'abrogazione del Decreto Legislativo 43/1948.

L'Italia dei Valori è riuscita ad ottenere per il 13 ottobre un question time del Ministro Calderoli alla Camera dei Deputati, affinché potesse rispondere della mancata cancellazione dell'articolo. Il deputato Massimo Donadi (IdV), ha raccolto sul suo sito lo scambio tra lui stesso e Calderoli.
La risposta del Ministro è stata articolata, come si legge, in tre argomentazioni:
  • la norma è stata inserita nella lista delle leggi da abrogare da una commissione tecnica istituita dal precedente governo di centrosinistra
  • a seguito dell'approvazione del Consiglio dei Ministri, non sarebbe stato possibile intervenire con una rettifica in Gazzetta Ufficiale
  • il Decreto Legislativo 43/1948 era comunque obsoleto, quindi la sua abrogazione non desta alcuna preoccupazione

    La lettera del Consigliere di Stato Vito Poli (15 ottobre 2010)

    Il 15 ottobre 2010 Vito Poli, Consigliere di Stato e presidente della commissione tecnica citata da Calderoli, ha scritto una lettera al Ministro e a Massimo Donadi, precisando che nessun componente del comitato scientifico ha proposto (o inserito del relativo elenco) l'abrogazione del Decreto Legislativo 43/1948. Si specifica inoltre nella lettera che l'inserimento di tale Decreto Legislativo nella lista delle leggi da abrogare è un errore materiale a causa della sua incoerenza giuridica con il Decreto Legislativo 179/2009, che al contrario mette il 43/1948 al posto 1.001 della lista delle leggi da non eliminare.
    Tale conflitto avrebbe reso possibile considerare l'abrogazione, secondo quanto riportato nella lettera, come un errore materiale, giustificando così l'utilizzo di una rettifica in Gazzetta Ufficiale.
    Lo stesso Ministero della Difesa, come riportato anche da News Sicurezza Difesa (che a sua volta cita l'ANSA) aveva richiesto tale rettifica, incontrando, ribadisce ancora la lettera, l'opposizione proprio del Ministro Calderoli.
    La lettera termina citando alcune sentenze della Consulta e della Cassazione che avrebbero avallato l'utilizzo della strategia della correzione in Gazzetta.
    Questi passaggi, uniti al fatto che il Decreto Legislativo 43/1948 era utilizzato - contrariamente alla sua obsolescenza citata da Calderoli - nel processo contro la Guardia Nazionale Padana, paiono smentire seccamente quanto riportato dal Ministro davanti al Parlamento.

    Sembra essere, quindi, la parola di Poli contro quella di Calderoli.
    Quando è stato inserita l'abrogazione contestata? Da chi? In una lettera inviata al Presidente della Camera Fini (FLI), Calderoli sostiene che l'abrogazione del Decreto Legislativo 43/1948 era stata presente anche nelle versioni preliminari di quello che sarebbe poi diventato il Decreto Legislativo 66/2010, e accusa di disattenzione i componenti della commisssione tecnica che ne hanno negato la presenza ed i parlamentari dell'opposizione che non hanno espresso rilievi in Aula. Inoltre attribuisce la paternità del Decreto Legislativo 66/2010 al Ministero della Difesa, rivendicando per sé il Decreto Legislativo 179/2009 che invece espressamente salvava la norma contestata.
    Questo secondo passaggio pare essere tuttavia in contrasto con l'affermazione del Ministero della Difesa citata da Poli e confermata dall'ANSA.

    Il file dell'Atto 165 del Senato, che dovrebbe contenere il testo del Decreto Legislativo così come è stato esaminato dalla Commissione Difesa, riporta tuttavia l'abrogazione del 43/1948, esattamente come sostiene il Ministro. E, sempre come sostiene il Ministro, nella discussione in Commissione non vi è traccia di interventi legati a tale abrogazione, in special modo da parte del Senatore Caforio, esponente dell'Italia dei Valori. Questo fatto dimostra l'eguaglianza tra il testo esaminato dal Senato e quello licenziato dal Consiglio dei Ministri: se ci sono state variazioni tra il parere della commissione tecnica e la legge, queste sono avvenute prima della presentazione del documento al Senato.

    Cosa è successo, in realtà? Anche unendo i fatti certi alle dichiarazioni, l'aperta opposizione tra la lettera di Poli e le parole di Calderoli rende impossibile ricostruire una storia coerente, e la vicenda assume sempre più le sfumature del giallo...

    domenica 24 ottobre 2010

    L'Italia e la libertà di stampa

    Press Freedom Index 2010

    Il 20 ottobre 2010 è stato pubblicato su Reporters sans frontières il rapporto annuale sulla libertà di stampa nel mondo per il periodo 01/09/2009 - 31/08/2010.

    L'Italia è stata classificata al 49° posto, la stessa posizione rispetto al 2009, e questo risultato decisamente poco lusinghiero ha immediatamente scatenato polemiche tra coloro che vedono in questo risultato la giustificazione degli allarmi per lo stato dell'informazione nel nostro Paese e coloro che invece contestano una metodologia che ci pone dietro a paesi come Capo Verde, Mali o Bosnia e alla pari con il Burkina Faso.
    La posizione del nostro Paese è ancora più grave se confrontata con il resto dell'Unione Europea: siamo infatti al 24° posto su 27, e peggio di noi si classificano solo Romania, Bulgaria e Grecia.

    Press Freedom Index 2010 nei Paesi UE

    Il giudizio dato all'Italia è netto:

    Lo stato della libertà di stampa in Italia, stretto tra bozze draconiane di riforma e minacce della mafia, è molto più preoccupante di quello dei suoi vicini europei. La stretta delle associazioni mafiose sul settore dei media si sta rafforzando e obbliga gran parte dei giornalisti alla prudenza. Il ritorno al potere di Silvio Berlusconi riporta all'ordine del giorno la questione della concentrazione e del controllo governativo dei mass media. La riforma legislativa che vieta la pubblicazione di alcuni atti giuridici è incompatibile con gli standard democratici dell'Unione Europea.

    In che modo RSF è arrivata a formulare questo giudizio? Sul sito è stata pubblicata la nota metodologica dell'indagine: RSF ha semplicemente predisposto un questionario con una serie di domande relative alla libertà di stampa e lo ha inviato ad una platea composta dalle associazioni partner, dai propri corrispondenti, da giornalisti, giuristi, ricercatori e militanti nel campo dei diritti umani. Come in qualsiasi sondaggio, l'identità delle persone contattate non è stata resa pubblica allo scopo di garantire risposte non condizionate.
    Il questionario è stato messo on-line, così come la metodologia di valutazione delle risposte, che prevede una scala che stabilisce nel valore zero il massimo della libertà e può estendersi fino ad un numero infinito di punti (vi sono domande, come quella sul numero di giornalisti uccisi con l'implicazione dello Stato, che non prevedono un punteggio massimo).

    I detrattori della validità del report basano il lor punto di vista su due categorie di obieizioni: da un lato viene infatti messo in discussione il metodo di raccolta dei dati, dall'altro la pertinenza e l'esaustività delle domande contenute nel questionario rispetto all'ambizioso obiettivo per cui sono utilizzate.
    L'obiezione relativa al primo punto è evidente: un questionario compilato da Santoro conterrà risposte ben diverse da uno compilato da Belpietro, e l'anonimato dei giornalisti contattati impedisce, secondo questa linea di ragionamento, di valutare l'imparzialità del campione scelto. Addirittura alcuni giornalisti potrebbero volutamente peggiorare l'immagine del proprio Paese per suscitare l'attenzione della comunità internazionale o lo scalpore dell'opinione pubblica.
    Le critiche relative al secondo punto sono altrettanto chiare: sono stati presi in considerazione tutti i fenomeni in grado di limitare la libertà di stampa? Vi sono domande ambigue, che chiedono di conteggiare fenomeni il cui rapporto causa-effetto con la libertà di stampa non è certo?

    In realtà, un'analisi delle domande consente di fornire alcune risposte chiarificatrici.

    In primo luogo il questionario proposto da RSF è in continua evoluzione: se da un lato questo rende impossibile un confronto immediato tra le risposte di un anno e quelle del precedente (ad esempio il punteggio dell'Italia è sceso da 12,14 nel 2009 a 15,00 nel 2010, ma al tempo stesso il questionario è passato da 40 a 43 domande), dall'altro è garanzia di un costante lavoro di aggiornamento e integrazione da parte degli autori allo scopo di fornire di volta in volta le domande più appropriate e complete per mappare in maniera esaustiva la libertà di stampa nel mondo.

    Il questionario di Reporters sans Frontières si presenta diviso in capitoli:
    • Violenze fisiche
    • Numero di giornalisti uccisi, imprigionati, attaccati fisicamente o minacciati, e ruolo dell'autorità
    • Minacce indirette, intimidazioni e accesso alle informazioni
    • Censura ed autocensura
    • Controllo dei media
    • Pressioni giuridiche, economiche e amministrative
    • Internet e nuovi media
    Come si vede, i capitoli coprono quindi in maniera capillare gli aspetti per cui ad un giornalista può essere impedito di svolgere il proprio lavoro o ad un cittadino può essere impedito di ricevere informazione. All'interno di ogni capitolo le domande sono esaustive, chiare e senza sovrapposizioni.

    La maggior parte dei quesiti, inoltre, fa riferimento a dati oggettivi e verificabili: il numero di giornalisti uccisi o torturati a causa della propria attività non può differire in base alle opinioni dell'intervistato. La presenza e la dimensione dei gruppi editoriali privati è un dato certo e numerico. Le pressioni da parte di forze militari sono fatti documentabili, così come i poteri delle authorities.

    Le domande in cui l'opinione dell'intervistato può diventare rilevante sono relativamente poche: 13, 17, 21, 22, 23, 26, 27, 30 e 32 sono i casi più evidenti. Prendendo il caso italiano, l'allontanamento di alcuni giornalisti da un telegiornale è ascrivibile ad un licenziamento ingiustificato? L'assenza o la minimizzazione di alcune notizie su alcune testate è classificabile come censura, o magari come autocensura? Queste domande, e probabilmente alcune delle altre, introdurranno quindi una certa varianza nei questionari, ed è proprio per questo che RSF rivolge le proprie domande ad una molteplicità di soggetti.

    A favore del lavoro di Reporters sans Frontières vanno quindi la completezza e la pertinenza delle domande presenti nel questionario, la trasparenza nella pubblicazione del questionario stesso unito alla metodologia di valutazione e la scelta di limitare il più possibile le domande che coinvolgono l'opinione degli intervistati.
    A tempo stesso, tuttavia, si sente la mancanza di alcuni dati che avrebbero consentito analisi maggiormente veritiere ed approfondite: lo stringato commento associato ad ogni Stato non consente di identificare con certezza la composizione del punteggio conseguito impedendo di comprendere e verificare nel dettaglio le pecche di ciascuno Stato, e la mancata pubblicazione della varianza dei questionari rende complesso stabilire se all'eventuale mancanza della libertà di stampa si accompagni anche una corretta percezione della medesima.

    In generale, si può quindi concludere che il Press Freedom Index di Reporters sans Frontières, seppure non possa offrire garanzie di precisione assoluta a livello del punteggio conseguito da ciascun Paese, sia però in grado di fornire accurate valutazioni sulle condizioni generali di salute della libertà di stampa.
    Se pertanto la coabitazione dell'Italia nella medesima posizione del Burkina Faso è un dato che può essere preso con le molle, deve destare invece preoccupazione la grande distanza che ci separa dalla vetta della classifica, un distanza culturale prima ancora che legislativa.

    giovedì 21 ottobre 2010

    Legge elettorale: trenta giorni dopo

    Carlo Vizzini (PdL)

    Il 21 settembre, un mese fa, aveva sollevato molti entusiasmi il fatto che la Commissione Affari Costituzionali del Senato avesse iniziato a prendere in esame la proposta di legge di iniziativa popolare di riforma della legge elettorale, tecnicamente definita Atto 3 ma nota ai più come "Parlamento Pulito".

    Cosa è cambiato, ad un mese di distanza?

    Il 21 settembre 2010, nel corso della seduta 425 del Senato, il senatore Pedica (IdV) aveva sollecitato il Presidente Schifani (PdL) a riferire sull'andamento dell'iniziativa "Parlamento Pulito". Schifani aveva citato un SMS ricevuto da Vizzini (PdL), presidente della Commissione Affari Costituzionali, nel quale si indicava il giorno successivo come data di inizio dei lavori in Commissione.

    Questa, fino ad oggi, è stata l'unica occasione in cui "Parlamento Pulito" è stata nominata in Aula nel corso della XVI Legislatura.

    Composizione della Commissione Affari Costituzionali
    del Senato della Repubblica

    In Commissione Affari Costituzionali, nel corso della seduta 221 del 21 settembre 2010, in effetti, si legge la dichiarazione del Presidente Vizzini ad iniziare la discussione dal giorno successivo.

    22 settembre 2010

    Nel corso della seduta 222 vengono esplicitate le seguenti posizioni, trasversali agli schieramenti: da un lato il timore che la reintroduzione delle preferenze possa avere effetti negativi in termini di voto clientelare, e dall'altro i dubbi di costituzionalità sulla limitazione personale all'elettorato attivo provocata dall'introduzione del vincolo di mandato. Il costituzionalista Ceccanti (PD) pone inoltre in evidenza il fatto che la sospensione della carica per un condannato in primo o di secondo violerebbe i suoi diritti di cittadino, che lo vedono innocente fino alla sentenza definiva.

    28 settembre 2010

    Il tema torna all'ordine del giorno nella seduta 223. L'unico intervento in materia è quello di Pardi (IDV). Le opinioni dell'esponente dipietrista spaziano da una classificazione dei reati per cui devono essere previste ineleggibilità e decadenza dalla carica alla necessità di una legge costituzionale per imporre il limite ai mandati, in linea con le osservazioni della seduta precedente. In particolare, auspica che la decadenza di un parlamentare non sia più sottoposta alle commissioni d'inchiesta delle Camere, ma possa essere attribuita alla Corte Costituzionale. Infine, Pardi commenta negativamente l'assegnazione di nuovi poteri al Presidente della Repubblica in quanto in contrasto con il dettato costituzionale.
    Onde chiarire l'incidenza del voto clientelare nel caso di reintroduzione delle preferenze, Vizzini propone di convocare il Procuratore Generale Antimafia, Grasso.

    5 ottobre 2010

    Nella seduta 225 matura la svolta. L'esame del ddl verrà abbinato a quello delle altre proposte di legge in materia elettorale, con trattazione già a partire dal giorno successivo.

    6 ottobre 2010

    La complessa seduta 226 non evidenzia nessun avanzamento nella discussione del provvedimento, ma costituisce unicamente un elenco suddiviso per argomento dei ddl in materia elettorale depositati al Senato. La decisione presa Commissione è quella di valutarli tutti insieme.

    12 ottobre 2010

    Nella seduta 229 vengono aggiunti altri tre ddl alla lista delle proposte in materia di legge elettorale, la cui discussione sarà accorpata a quelle elencate nel corso della seduta della settimana precedente.

    19 ottobre 2010

    Si arriva infine alla seduta 233, in cui vengono meramente elencati i ddl, tra quelli di materia elettorale, che hanno l'aperto sostegno di uno o più gruppi parlamentari.

    Ecco il risultato di un mese di lavoro da parte della Commissione Affari Costituzionali del Senato della Repubblica. Un mese in cui in realtà in materia di legge elettorale si è fatto ben poco, malgrado gli appelli di chi in Commissione afferma che la matrice popolare del ddl merita particolare attenzione.
    Dopotutto, i timori espressi solo pochi giorni fa dal Presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini (FLI), non erano poi così infondati.

    Città Democratica continuerà a tenere d'occhio il progresso dei lavori: appuntamento al mese prossimo, sperando che le novità da raccontare siano più corpose...

    lunedì 18 ottobre 2010

    Energia nucleare e indipendenza energetica

    La miniera di uranio Olympic Dam (Australia)

    Il 29 settembre 2010 il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nel corso del discorso alla Camera dei Deputati in cui ha chiesto la fiducia del Parlamento sull'azione del Governo, ha rilanciato il progetto energetico nucleare in Italia, con le parole

    Significa fornire ai nostri cittadini e alle nostre imprese fonti di energia economicamente convenienti, rispettose dell'ambiente e che nel contempo riducano la pericolosa dipendenza energetica del nostro Paese; e la sola risposta, oggi, è il nucleare, una sfida che dobbiamo perseguire con convinzione e determinazione.

    Il tema forse di maggior impatto tra quelli toccati dal premier è quello dell'indipendenza energetica, o meglio della riduzione di dipendenza, di cui si gioverebbe il nostro paese nel passaggio al nucleare.

    L'accordo siglato il 24 febbraio 2009 tra Italia e Francia prevede, come primo step, la costruzione su suolo italiano di quattro centrali a partecipazione condivisa ENEL ed EDF a tecnologia EPR al più tardi entro il 2023. La vita media prevista per tali centrali nucleari sarebbe di 60 anni, circa il 50% in più delle centrali di seconda generazione costruite nel secolo scorso e più del doppio dell'età media delle 441 (dato settembre 2010) centrali attualmente operative nel mondo.

    Veramente tali reattori potranno garantire all'Italia l'indipendenza energetica come sostiene Berlusconi, senza dover dipendere dai capricci dai signori del petrolio e del gas naturale? Veramente tale indipendenza significherà una bolletta energetica meno salata?

    Riserve mondiali di uranio in miniera
    accertate e dedotte (2009)

    Come mostra la tabella, ricavata dal sito World Nuclear Association, l'Italia e in generale l'Unione Europea non dispongono all'interno dei propri confini di giacimenti di uranio, il combustibile nucleare utilizzato nei reattori EPR e in generale nella quasi totalità delle centrali nucleari attive e di prossima progettazione nel mondo.
    La tabella riporta la quantità di uranio conosciuta e stimata suddivisa per Paese, e estraibile in termini economicamente vantaggiosi con le attuali tecnologie e con prezzo dell'uranio a 130 $/kg. Come si vede, rispetto al petrolio i principali paesi fornitori di uranio, in special modo Australia e Canada, sono stabili politicamente e amici o addirittura parte integrante della cosiddetta "civiltà occidentale". Importare dall'Australia o dal Canada non è certamente la stessa cosa rispetto a importare dalla Russia o dai Paesi Arabi.
    D'altra parte nel mondo del nucleare si sono venuti a creare dei veri e propri cartelli che nulla hanno da invidiare a quelli petroliferi, con 7 compagnie che nel 2009 controllano oltre l'80% delle attività estrattive (Areva, Cameco, Rio Tinto, KazAtomProm, ARMZ, BHP Billiton e Navoi) e arridittura solo 4 che raggruppano oltre l'80% degli impianti di arricchimento. La francese Areva spicca tra queste per l'appartenenza ad entrambe le categorie.

    Anche se il legame tra Italia e Francia ci consentirebbe di entrare nella galassia di Areva, che gestendo la filiera nucleare dall'estrazione al decommissioning ci permetterebbe di avere una parvenza di indipendenza, è bene esaminare il prezzo dell'uranio e analizzare domanda e offerta del materiale.

    Variazioni del prezzo dell'uranio
    sul mercato spot in $/lb (1988 - 2010)

    Rincari dei prezzi consentirebbero l'immissione di nuovo uranio sul mercato, dal momento che le miniere oggi considerate economicamente non produttive diventerebbero vantaggiose, ma a causa degli elevati costi di estrazione difficilmente tale immissione consentirebbe di calmierarne adeguatamente il costo, costo che finirebbe nelle bollette dei cittadini.

    La World Nuclear Association ha pubblicato l'andamento dell'offerta di uranio - sia come minerale puro sia come U3O8, la cosiddetta yellow cake - nel corso degli ultimi anni, comprensiva di percentuale coperta della domanda.
    Come si può vedere, la domanda di uranio già oggi supera abbondantemente l'offerta, e la differenza è certamente destinata ad acuirsi se i GW di potenza nucleare dovessero aumentare. In particolare, come mostra questa pagina dedicata ai reattori installati nel mondo ed aggiornata al 1 ottobre 2010, se per gli attuali 376.313 MWe attualmente prodotti da energia nucleare servono 68.646 tonnellate di uranio, se tutte le centrali definite come "in costruzione", "pianificate" e "proposte" dovessero diventare realtà e supponendo un adeguato turn-over dovuto alla dismissione degli impianti più vecchi i MWe diventerebbero oltre 650.000 con un consumo di uranio intorno alle 120.000 tonnellate annue. Questo fattore gioca indubbiamente a favore di un incremento dei prezzi, dopo l'impennata del 2007 e la successiva stabilizzazione.
    Gli outlook della WNA mostrano inoltre come sarà difficile sostenere la domanda di uranio anche per i decenni a venire, contando anche le riserve stimate.

    Outlook della domanda e dell'offerta di uranio

    A fronte di una domanda di uranio già oggi superiore all'offerta e in ogni caso destinata ad aumentare vi è un imponente vincolo all'offerta. Le miniere di uranio non sono tutte dello stesso tipo: se alcuni dettagli possono essere ovvie (miniere a cielo aperto o in gallerie, rocciose o sabbiose, eccetera), uno in particolare merita un approfondimento.
    I giacimenti di uranio hanno densità variabili, secondo quanto riporta sempre il sito World Nuclear Association, tra il 20% delle più ricche miniere canadesi e lo 0,0000003% del minerale disciolto nell'acqua di mare.

    Ricchezza e concentrazione di minerale dei principali
    giacimenti di uranio

    Secondo quanto riportato dagli scienziati G. M. Mudd e M. Diesendorf in Sustainability Aspects of Uranium Mining: Toward Accurate Accounting? (2007) la maggior parte delle miniere di uranio note, come si vede nel grafico, è contemporaneamente poco ricca e poco densa di materiale.

    La concentrazione di un giacimento è fondamentale per il calcolo dello yeld, il grado di estraibilità, ovvero la quantità di minerale che realmente si riesce ad estrarre da un giacimento.
    Con l'attuale tecnologia estrattiva lo yeld è ricavabile empiricamente, per valori di G maggiori a 0,05%, come

    y = 0,980 - 0,0723 (log g)2

    Per valori inferiori alla soglia il risultato è da intendere come un limite superiore.
    La formula si discosta dai risultati teorici previsti, ed è il risultato - considerato addirittura ottimistico dagli autori - del lavoro realizzato da Storm van Leeuwen e Smith, un'équipe indipendente i cui risultati sono stati presi a bandiera da molti anti-nuclearisti per il mondo.
    Ad esempio, in una miniera con concentrazione g = 0,1% un kg di uranio è contenuto in una tonnellata di matrice. Lo yeld calcolato secondo la formula è 0,9077, il che implica che solo il 91% dell'uranio disponibile riesce ad essere effettivamente estratto. Per ricavare un kg di uranio, pertanto, diventa necessario estrarre 1,1 tonnellate di matrice.

    Le altre attività - trattamento chimico, arricchimento - che accompagnano l'uranio fino al suo ingresso nel reattore nucleare hanno un bilancio energetico costante e noto, così come è nota l'energia ricavabile dall'uranio e l'efficienza di conversione in energia elettrica (che per gli EPR si aggira sul 37%).
    Pertanto il bilancio energetico dell'energia nucleare si può considerare come una funzione della semplice concentrazione di uranio nella miniera, e lo studio di Storm van Leeuwen e Smith pone in circa 0,02% la soglia di concentrazione al di sotto della quale diventa energeticamente sconveniente, con la tecnologia attuale, estrarre uranio, per il semplice fatto che la centrale nucleare si troverebbe lavorare con un bilancio energetico complessivo negativo.
    Questo vincolo, che si aggiunge a quello della convenienza economica e a differenza di questo è invalicabile, rende di fatto non sfruttabili le riserve di uranio disciolte nell'acqua di mare o raggruppate sotto il generico "graniti", "rocce sedimentarie" e "crosta terrestre", limitando quindi l'estrazione dell'uranio alle miniere vere e proprie, escludendo addirittura quelle con concentrazione di materiale più bassa. Sebbene le stime della World Nuclear Association definiscano in oltre 25 milioni di tonnellate le riserve di uranio contenute in tali matrici, esse sono al momento economicamente ed energeticamente inaccessibili.

    Poiché i reattori che verranno costruiti nel corso del presente e del prossimo decennio nel mondo sono tecnologicamente molto simili - per quanto riguarda la parte di effettiva produzione energetica - a quelli attualmente in uso, è possibile stimare una durata delle riserve sfruttabili di uranio da 40 (ipotizzando un consumo medio di 140.000 tonnellate annue) a 55 (con un consumo medio di 100.000 tonnellate annue) anni a partire dal 2009, a seconda di quanti GW di potenza nuclare saranno via via installati nel mondo e in ogni caso tenendo conto delle riserve sia accertate sia dedotte. Nel caso di consumi invariati al livello del 2009 le scorte di uranio durerebbero invece 80 anni.

    In sostanza le quattro centrali nucleari italiane, così come tutte quelle di III generazione che verranno aperte nel mondo nei prossimi decenni avranno combustibile a sufficienza, in un'ipotesi ragionevole, solo per una frazione del ciclo di vita per cui sono state pensate, costruite e soprattutto finanziate.

    Salvo clamorose scoperte di giacimenti ricchi e facili da sfruttare, che comunque rinvierebbero solo il problema senza risolverlo, per uscire da questo quadro a tinte fosche non è possibile scommettere su miglioramenti della resa energetica delle centrali, a causa del fatto che tali evoluzioni non investirebbero le centrali attualmente in costruzione e quelle che lo saranno nei prossimi anni; occorre quindi necessariamente puntare ad affinamenti delle tecniche minerarie dell'uranio, che consentano di estrarre il minerale dalla sua matrice con minori dispendi energetici e possibilmente a costi contenuti.

    Il Governo Italiano ha scelto quindi di puntare su una fonte di approvvigionamento che, prescindendo da ogni altro fattore ambientale, sociale ed economico di fatto non garantirebbe l'indipendenza energetica al nostro Paese, menttendoci invece nelle mani delle poche multinazionali che controllano l'estrazione e la raffinazione dell'uranio, nonché dell'unica azienda al mondo in grado di costruire i vessel dei reattori, la Japan Steel Works (al 2008).
    Una fonte energetica della cui materia prima non si può nemmeno essere certi in termini di esistenza ed utilizzo, dal momento che solo il computo delle risorse dedotte e la presupposizione di notevoli e non scontati progressi tecnologici in campo minerario consentirebbero l'approvvigionamento di materiale per tutta la durata del ciclo di vita delle centrali.
    Più che una fonte energetica, quindi, una scommessa il cui conto pende come una spada di Damocle sulla bolletta che i cittadini italiani pagheranno nei prossimi decenni.

    giovedì 14 ottobre 2010

    Iter legislativi a confronto

    Votazione al Senato della Repubblica

    Legge, disegno di legge, decreto legislativo, decreto legge, legge delega... le differenti formule di legislazione previste dalla Carta Costituzionale sono spesso ostiche al pubblico e in taluni casi neanche i mezzi di informazione aiutano, visto che per eccesso di semplificazione o per semplice superficialità talvolta ingenerano confusione negli utenti finali desiderosi di conoscere l'iter di un particolare procedimento.
    Si cercherà quindi di fare chiarezza sul tema presentando le varie tipologie di leggi che possono essere approvate in Italia e le peculiarità che contraddistinguono ciascuna di esse.

    L'iniziativa legislativa, ovvero il potere di sottoporre una proposta di atto normativo al Parlamento, è delegata per via costituzionale (artt. 71 - 99 - 121 - 132 - 133) ad una lista ben definita di elementi:
    • il Governo
    • il Parlamento, inteso come ciascun parlamentare o gruppo di parlamentari
    • il CNEL
    • un qualsiasi Consiglio Regionale
    • un qualsiasi Consiglio Comunale
    • il popolo, inteso come un insieme di almeno cinquantamila cittadini aventi diritto di voto
    Sempre la Costituzione vincola inoltre i limiti dell'iniziativa legislativa: ad esempio, solo il Governo può legiferare in tema di bilancio o di regolazione delle confessioni religiose, mentre le leggi di iniziativa dei consigli comunali possono riguardare solo mutamenti delle circoscrizioni provinciali, quelle del CNEL devono avere solo ambito economico-sociale e via dicendo.

    Gli atti proposti dal Governo devono sottostare ad un percorso più rigido di quelli provenienti da altre fonti: la proposta effettuata dal Consiglio dei Ministri deve infatti essere validata da un decreto di autorizzazione del Presidente della Repubblica per essere presentata alle Camere. Al contempo, sono tuttavia concessi al Governo alcuni strumenti per legiferare, entro i limiti stabiliti dalla Costituzione, al posto del Parlamento.

    La tipologia di legge più comune che può approdare in Parlamento è il cosiddetto "disegno di legge" o "progetto di legge". Per consuetudine alla Camera si utilizza il primo termine per gli atti di origine governativa ed il secondo per quelli provenienti da tutte le altre fonti, mentre al Senato si utilizza sempre la terminologia "disegno di legge".
    Iter di una legge
    Il primo passaggio dell'iter consiste nell'assegnazione del ddl ad una delle due Camere del Parlamento. Nel caso di iniziative parlamentari è consuetudine che l'esame del testo parta dal ramo di appartenenza del primo firmatario della proposta di legge; negli altri casi il Governo concorda con gli Uffici di Presidenza delle Camere da dove partire per ottimizzare i tempi di lavoro.
    La seconda fase consiste nell'assegnazione del ddl ad una commissione parlamentare, secondo il principio del rationae materiae. La commissione parlamentare interessata può quindi lavorare secondo tre tipologie di procedura.
    La prima è definita "referente", ed è lo standard. Quando lavora in questa modalità la commissione dibatte il testo articolo per articolo, fissa un limite per la presentazione degli emendamenti, e infine vota il provvedimento e gli eventuali emendamenti. Il testo uscito dala commissione viene quindi presentato all'Aula, dove sarà nuovamente votato articolo per articolo. Il Governo può richiedere alla commissione la procedura d'urgenza, che dimezza il tempo massimo in cui il ddl può sostare in commissione.
    La seconda modalità è la "redigente". Un testo vagliato da una commissione redigente subisce il medesimo trattamento della commissione referente, ma in Aula verrà votato solo il provvedimento complessivo, senza la votazione punto per punto.
    Ancora più drastica è la modalità cosiddetta "deliberativa" o "legislativa": in questo caso, infatti, il parere della commissione ha valenza di approvazione definitiva, e non ci sarà quindi il passaggio in Aula.
    Affinché un procedimento sia valutato in modalità redigente o legislativa è necessario inoltrare specifica domanda alla commissione, la quale approverà o meno la richiesta a votazione a maggioranza semplice.
    Iter di un
    decreto legislativo
    Una volta terminato il passaggio in commissione il provvedimento, se necessario, viene votato in Aula, e passa all'altro ramo del Parlamento. Una legge si considera definitivamente approvata se Camera e Senato esprimono consecutivamente un voto favorevole sul medesimo testo, senza cioé che siano inseriti emendamenti o stralci tra una votazione e l'altra.

    Tra le leggi è di particolare interesse la cosiddetta legge delega. Tale provvedimento è in tutto e per tutto una legge ordinaria, fatte salve alcune limitazioni: le commissioni possono esprimere una valutazione solo in sede referente, e non può riguardare temi particolarmente delicati come amnistie, indulti, bilancio dello stato, fisco, leggi costituzionali, conversioni di decreti o ratifiche di trattati. Di fatto, però, è una legge che non contiene al proprio interno alcun provvedimento reale: si tratta semplicemente della possibilità offerta all'Esecutivo di legiferare in un determinato ambito, generalmente recepimenti di direttive europee o in generale temi troppo vasti per essere trattati adeguatamente dal Parlamento.
    La legge delega fissa quindi i confini all'azione del Governo in termini di oggetto, principi e tempi. All'interno di tali limiti il Governo, tramite il Consiglio dei Ministri, prepara uno schema di decreto legislativo da sottoporre alle commissioni competenti delle due Camere, le quali si limitano però a fornire un parere meramente consultivo. Al termine dell'esame il Governo può emanare il decreto lesgislativo così com'è o recepire le eventuali indicazioni fornite dalle commissioni e ripetere l'iter.

    Iter di un decreto legge
    Un altro strumento messo a disposizione del governo per legiferare è il decreto legge. Si tratta di una vera e propria legge emanata direttamente dal governo sulla base di fondati motivi di necessità e urgenza che giustifichino lo scavalcamento del Parlamento. Il provvedimento ha immediata valenza di legge, ma deve essere presentato alle Camere entro 24 ore e calendarizzato entro 60 giorni per la votazione per la conversione in legge. Se così non avviene il decreto decade - perde validità dal momento della sua emanazione, invalidando ogni situazione instauratasi a causa della sua validità nel corso del tempo - oppure può essere reiterato dal Governo, facendo ricominciare il procedimento.

    Dopo la votazione finale di una legge, l'emanazione di un decreto legge o quella un decreto legislativo, e prima della loro effettiva entrata in vigore, il testo passa all'analisi del Presidente della Repubblica, che può intervenire una ed una sola volta per rinviare ad ulteriore analisi il provvedimento se riscontra fondati motivi di incostituzionalità. Il Parlamento o il Governo hanno comunque il potere di emanare una seconda volta il medesimo testo obbligando il Capo dello Stato a firmarlo.

    martedì 12 ottobre 2010

    Pluralismo televisivo all'italiana

    Loghi dei principali TG italiani

    Da pochi giorni sono usciti i dati AGCom1 del mese di settembre 2010 relativi al pluralismo televisivo nei telegiornali italiani.
    Già nei giorni scorsi il quotidiano La Repubblica aveva sollevato la questione del pluralismo televisivo, ma l'uscita dei dati certificati dall'Autorità toglie ogni dubbio in merito: siamo in presenza di uno squilibrio di grandi proporzioni a favore della maggioranza parlamentare a scapito delle forze di opposizione in termini di occupazione mediatica dei telegiornali.

    Ho trascritto e aggregato i dati AGCom in questo file .xls, cercando di analizzare i numeri da più prospettive onde tracciare un quadro il più possibile completo dello stato in cui versa il pluralismo politico dei nostri telegiornali.

    La prima analisi suddivide lo spazio in maggioranza (formata da PdL, FLI, Lega, MPA e UDEUR), opposizione (le restanti formazioni) ed istituzioni.

    Dati AGCom settembre 2010 aggregati per
    Istituzioni - Maggioranza - Opposizione

    Le regole della par condicio prevedono un sostanziale equilibrio tra queste tre componenti, ma in realtà è evidente dal grafico come ovunque il tempo riservato all'opposizione sia inferiore al 30%, con una media ponderata appena al 23%. Questa tendenza è particolarmente accentuata nei TG delle reti Mediaset, dove lo spazio riservato a tutti i partiti di opposizione messi assieme si attesta in media sul 17%.
    Il tempo riservato alle istituzioni risulta invece in linea con le direttive della legge, mentre risulta superiore alla media lo spazio dedicato alla maggioranza. Quest'ultimo punto, che può sembrare irrilevante dal momento che istituzioni e maggioranza sono, con l'eccezione del Presidente della Repubblica Napolitano, nella stessa parte politica, mostra come per lo meno nel mese di settembre non si possa propriamente parlare di una TV di regime, come diverse voci gridano, quanto piuttosto di una TV "semplicemente" di parte.
    La maggioranza ha disposto in totale di 67 ore contro le 37 dell'opposizione. Questo è il dato di fondo che denota lo squilibrio della televisione italiana nel suo complesso. Gli estremi sono il TG3 - verso l'opposizione - ed il TGCom - verso la maggioranza - , ma sono estremi il cui punto medio non coincide con l'equità televisiva prevista dalla Legge 28/2000 sulla par condicio. In questa visione puramente numerica, pertanto, l'informazione offerta dai TG italiani pende pesantemente verso la maggioranza parlamentare.

    I limiti dell'analisi condotta fino a questo momento sono tuttavia evidenti: lo studio è quantitativo, misura il tempo destinato alle formazioni politiche senza interrogarsi sul reale contenuto delle dichiarazioni. Ad esempio, il tempo dell'UDC è ascritto all'opposizione sia che gli esponenti di tale partito critichino il governo sia che critichino altre forze di opposizione come IdV o PD.
    Se è però impossibile realizzare un vero studio qualitativo, che richiederebbe l'analisi linguistica di ogni affermazione apparsa nei TG del mese, si può affinare lo studio quantitativo sfruttando scenari alternativi che rispondano a situazioni verosimili.

    Il tema che ha tenuto banco negli ultimi mesi, naturalmente, è la nascita del nuovo partito finiano Futuro e Libertà per l'Italia ed il divorzio in atto del Presidente della Camera da Berlusconi. Spesso si sente dire che quella di Fini è un'opposizione all'interno della maggioranza: diventa allora interessante replicare il grafico precedente inserendo FLI e MPA tra le forze di opposizione.

    Dati AGCom settembre 2010 aggregati per
    Istituzioni - Maggioranza - Opposizione
    (FLI e MPA conteggiati con l'opposizione)

    La media dei TG si sbilancia in questo caso a favore dell'opposizione, anche se con uno squilibrio inferiore rispetto alla situazione precedente. In particolare risultano essere i TG di Rai3 e La7 ad essere maggiormente impattati dall'operazione di spostamento, ovvero, in altre parole, sono queste testate ad aver dato il maggiore spazio alla nuova creatura politica di Fini.
    Da questa semplice operazione ci si può rendere maggiormente conto dell'utilizzo finale dello spazio politico: pur in un'ottica che vede preponderante lo spazio destinato alla maggioranza, diventa impossibile considerare nell'area di centrodestra testate come il TG3 o il TGLa7, proprio per il modo specifico in cui lo spazio dedicato alla maggioranza è stato utilizzato: l'evidenza data alla diatriba tra Berlusconi e Fini ed il processo che ha portato alla nascita di FLI difficilmente possono mettere in buona luce la maggioranza parlamentare, e l'aver reso oggetto di studio il tempo destinato al partito di Fini consente di capire meglio l'uso che ciascuna testata fa del tempo destinato alle aggregazioni riportate nei grafici.

    L'ultima tipologia di analisi riguarda la suddivisione del tempo in macroaree politiche, ricalcando sommariamente la formula di par condicio in vigore, ad esempio, in Germania o nel Regno Unito. I partiti sono stati quindi raggruppati nelle seguenti categorie politico-culturali:
    • Destra (La Destra, Lega Nord)
    • Centrodestra (PdL, FLI, UDEUR)
    • Centro (MPA, API, UDC)
    • Centrosinistra (PD, IDV, SEL, Radicali)
    • Sinistra (PS, FES, Verdi)
    • Altro
    La classificazione, che inevitabilmente si presta a obiezioni di vario genere a causa dell'enorme semplificazione del quadro politico che comporta, è stata stabilita ove possibile sulla base di autocollocazione espressa dei partiti nello scenario politico italiano ed europeo, e laddove necessario sulla base delle alleanze. Le elezioni del 2008 sono state utilizzate come campione di confronto; gli esiti dell'aggregazione sono evidenziati nel grafico che segue.

    Dati AGCom settembre 2010 aggregati per
    area socio-culturale

    Il risultato è nuovamente molto netto: in nessun canale lo spazio dedicato a destra e centrodestra risulta inferiore al 50%, e solo nel TG2, nel TG3 e su SkyTG24 è inferiore al 60%. Su TGCom supera il 90%.
    Si nota poi la scomparsa quasi totale della sinistra: se è vero che rispetto al 2008 c'è stata la scissione di SEL dall'area più radicale, è pur vero che solo su TG1 e TG3 l'area più a sinistra mantiene una quota superiore allo 0,5%.
    Anche il centrosinistra risulta fortemente penalizzato: pur aggiungendo rispetto alle elezioni il contributo di SEL in nessun TG raggiunge il 30% dello spazio, a fronte del 37% totalizzato alle politiche del 2008.
    Rispetto alla tipologia di analisi precedente in questo caso non ha senso ripetere lo studio spostando partiti da un'area all'altra: l'opposizione interna alla maggioranza fatta da FLI, per esempio, si mantiene infatti in un ambito socioculturale di centrodestra.

    Il telegiornale che nel mese di settembre si è dimostrato maggiormente vicino all'equità, tramite il calcolo dello scarto rispetto alle politiche con il metodo dei minimi quadrati, risulta essere SkyTG24 seguito da TG2 e TG3, mentre i più squilibrati sono stati TGCom e TG4.

    Il sentire comune che vuole emittenti come Sky e Rai3 orientate verso sinistra deve quindi essere ricondotto nell'alveo dei dati reali: queste reti costituiscono gli estremi a sinistra di un'informazione prepotentemente orientata a destra, e anzi risultano esse stesse, numericamente parlando, tendenti verso la medesima parte.
    Il dato deve far riflettere con attenzione: se l'opinione pubblica percepisce come tendenti a sinistra fonti di informazione vicine all'equità significa che la psicologia dell'ascoltatore medio è tarata sul considerare come obiettiva una fonte in realtà vicina al mondo di destra; probabilmente questa tendenza è maturata nel corso di anni in cui spaccati di informazione analoghi a quello qui presentato si sono succeduti fino a diventare la normalità. In uno dei prossimi inteventi si cercherà di presentare una serie storica tale da suffragare con i dati queste affermazioni.

    L'handicap che si ritrovano storicamente ad avere le formazioni di sinistra in termini di rappresentatività nei telegiornali si è sedimentato quindi negli anni in un handicap culturale difficile da combattere, e l'andamento attuale della spartizione dell'informazione nei TG non offre vie di uscita all'interno del mezzo televisivo. Occorrerebbe puntare su mezzi di informazione alternativi, ancora liberi da egemonie di sorta ma al tempo stesso poco pervasivi in un paese dall'elevato digital divide come l'Italia.






    1: la pagina AGCom relativa al monitoraggio televisivo entra a far parte delle fonti del blog

    domenica 10 ottobre 2010

    L'Onda torna in piazza

    La manifestazione dell'Onda a Torino

    L'8 ottobre 2010, le vie e le piazze delle principali città italiane sono state attraversate dai cortei dell'Onda, il movimento studentesco apartitico mobilitato contro la riforma scolastica targata Mariastella Gelmini.
    Impossibilitato a partecipare personalmente, ospito volentieri in Città Democratica un feroce resoconto redatto da Matteo Suppo, che ha seguito lo sviluppo del corteo a Torino.

    La mattina dell’8 ottobre 2010 il popolo studentesco si riunisce per le strade di Torino per porre l’accento sulle gravissime problematiche connesse alla riforma scolastica, denominata "Riforma Gelmini", per sensibilizzare la popolazione sull’argomento ed esprimere il proprio dissenso in maniera efficace.
    Fallendo miseramente.

    Verso le 9:30 raggiungo il corteo e mi faccio subito un'idea di cosa mi aspetta: la folla è un blob umano informe e urlante di sedicenni con bandiere e striscioni a pennarello. Da un paio di camionette musica ad altissimo volume che copre efficacemente le voci dei pochi col megafono che cercano di dire qualcosa di forse intelligente.
    Periodicamente e completamente a caso partono slogan innovativi partoriti dalle fertili e geniali menti dei nostri studenti. "Gelmini, Gelmini, vaffanculo." "Chi non salta la Gelmini è, è." Qualcuno azzarda addirittura un "Giù le mani dalla scuola." Sono davvero colpito.
    Mi ritrovo travolto e circondato da ragazzini sorridenti, gente che balla, bottiglie di birra e anche un bong di mezzo metro. Mi chiedo ad un certo punto se per caso non sono finito nella festa di compleanno di qualcuno, ma poi vedo i poliziotti in tenuta antisommossa e mi rassicuro.
    Raggiungo senza grossi problemi la testa del corteo, dove mi ritrovo ad osservare scena surreale: da una parte c’è una fila di caschi blu con scudi e manganelli pronti a non si sa bene cosa, dall’altra parte un gruppo di studenti dietro ad uno striscione che urlano e si preparano a caricare. In mezzo una decina di clown che ballano.

    Sì. Clown. Che ballano. Che corrono da una parte all’altra, che fanno tiro alla fune con gli striscioni, che giocolano. Sono perplesso ancora adesso.

    Mentre mi faccio largo tra la folla per tornare verso la coda del corteo comincio a fumare di rabbia. Avrei potuto stare a casa. Avrei potuto tranquillamente scrivere questo articolo senza aver visto la manifestazione.
    Ma tutti avrebbero potuto farlo. L’abbiamo già vista. Sono anni che il format standard delle manifestazioni è così. Mi immagino lo sforzo creativo degli organizzatori:
    "Dai, è anche ora di fare una manifestazione, no?"
    "Certo dai, contro cosa la facciamo?"
    "Contro la Gelmini che va di moda."
    "Va bene, io avviso i centri sociali."
    "Io i NO TAV."
    "Io chiamo la gente per mettere musica, dai che ci divertiamo."

    E il risultato è questo: una festa, una scusa per saltare scuola, un raduno di giovani alternativi, talmente alternativi da risultare alla fine tutti uguali.
    Dov’è la protesta? "Gelmini vaffanculo" non è una protesta. È un insulto. Un insulto a tutto il mondo studentesco. Un insulto a chi lotta per davvero. Un insulto alla famosa creatività giovanile.
    Dove sono le fervide menti dei nostri ragazzi? Dove sono le idee? Era una manifestazione talmente vecchia che era la parodia di sé stessa.
    Davvero non si riesce a pensare a qualcosa di diverso dal cliché "tanta gente per le strade, musica a palla e buffi individui che bloccano il traffico"?
    Davvero non si riesce a fare nulla di innovativo e originale e ci si riduce a riciclare le idee vecchie e stantie che servivano a protestare contro cose completamente diverse?
    Davvero hanno mandato a tutto volume la canzone CONTESSA?

    Davvero. Lo hanno fatto davvero.
    Sono rimasto agghiacciato. Se la scuola italiana produce queste menti allora ha bisogno di una riforma alla svelta. Ma una riforma vera.

    Qualche cosa un po’ diversa qua e là si trovava, cercando con attenzione.
    Un gruppo di ricercatori andava in giro in camice e con un foglio attaccato al petto col tasto di stand-by del computer.
    Sforzandosi moltissimo e con molta buona fede si riusciva a trovare un senso addirittura ai clown, facendo finta che fossero "i pagliacci al governo". Ma bisogna tirare a indovinare e non è neanche detto che fosse così.

    Insomma, un paio di idee vagamente interessanti e mal sfruttate nascoste per bene nella solita bolgia pseudocomunista, quelli convinti che la rivoluzione si faccia con le canne. Cosa riporteranno i media? Potrebbero addirittura mandare i filmati delle manifestazioni precedenti. Non se ne accorgerebbe nessuno.

    Prendiamo invece un'iniziativa differente. Prendiamo spunto dai ricercatori e diamo a tutti i partecipanti alla manifestazione il loro foglio col tasto di stand-by. Li facciamo camminare in silenzio, mentre agli altoparlanti vengono citate le cifre dei tagli e dei licenziamenti a ruota continua. Niente carretti con la musica, niente gente che si ubriaca.
    "Cazzo ti ridi? È il funerale della scuola. Non è affatto divertente."
    Funzionerà? Non funzionerà? Servirà? Non importa. È un'idea nuova. Va sperimentata.

    Sono anni che si fanno manifestazioni e non sono mai servite a niente. Direi che è ora di cambiare, no? Quindi ora occorre licenziare i mentecatti che organizzano queste buffonate chiamate manifestazioni e metterci qualcuno che sappia quello fa.
    Sempre se la voglia è davvero di protestare.
    Perché se la voglia è solo quella di fare casino in una festa per le strade, allora la scuola italiana è morta con o senza tagli.


    Quando ho letto questo articolo mi sono spaventato. L'Onda è veramente solo questo? Dove sono finite le proposte, le ottanta pagine di proposte sulla scuola promosse dal comitato organizzatore sotto il nome di AltraRiforma? Dove è finita la sensibilizzazione, dove sono le lezioni all'aperto?
    Forse Torino è stata solo una nota stonata, spulcio i quotidiani per avere qualche informazione sommaria sulle altre città. A Trieste, scopro, si è tenuto un dibattito pubblico su AltraRiforma. A Bologna c'è stata una lectio magistralis in Piazza Santo Stefano tenuta dal costituzionalista Morroni.
    Ma poi? Atti simbolici qua e là. Chiavi di una scuola consegnati alla Gelmini a Roma. A Trieste, prima del dibattito pubblico, un processo alla Gelmini. Per il resto, Milano, Napoli, Bari... solo cortei.
    E allora non è stata Torino la nota stonata. Sono state piuttosto Trieste e Bologna le eccezioni in positivo di un piattume generalizzato.

    Un corteo è importante, senza dubbio. Nelle manifestazioni occorre in fondo fare numero, e lo scopo principale è cercare risalto mediatico. Tuttavia, e la critica di Suppo coglie bene nel segno, la qualità della manifestazione incide pesantemente sulla visibilità.
    Che immagine hanno fornito i giovani torinesi? Che cosa hanno proposto di meglio rispetto alla Gelmini? L'articolo utilizza l'Onda per muovere una critica pesante al modo stesso di manifestare.
    Sfilare in corteo, nel bene o nel male, non basta più. Da parte di chi fonda buona parte della propria protesta sul non essere genericamente "contro" e sul saper fornire un'alternativa migliore è lecito pretendere che una manifestazione diventi un cantiere di idee, come a Bologna e Trieste, oppure un luogo di vera informazione, come nel suggerimento "funerario" presentato nel resoconto.

    L'anno scolastico è ancora lungo, e ci sarà certamente il tempo per rimediare a questo mezzo passo falso. Tuttavia, per il momento e malgrado il grande successo numerico, l'Onda è rimandata.

    giovedì 7 ottobre 2010

    Più benzo[a]pirene per tutti

    Simbolo delle sostanze tossiche

    Il benzo[a]pirene (formula bruta C20H12) è un idrocarburo policiclico aromatico classificato dall'IARC1 come cancerogeno. Il suo grado di pericolosità è stato recentemente portato da 2B (possibly carcinogenic to humans) a 1 (Carcinogeinc to humans).

    Quando si ha a che fare con il benzo[a]pirene e prodotti che lo contengono le normative europee 88/379/CE2, 1999/45/CE e 2001/60/CE impongono le seguenti diciture:

    R45: Può provocare il cancro.
    R46: Può provocare alterazioni genetiche ereditarie.
    R50/53: Altamente tossico per gli organismi acquatici, può provocare a lungo termine effetti negativi per l'ambiente acquatico.
    R60: Può ridurre la fertilità.
    R61: Può danneggiare i bambini non ancora nati.
    S45: In caso d'infortunio o di malore, consultare immediatamente un medico (recare possibilmente con sé l'etichetta).
    S53: Evitare l'esposizione, procurarsi istruzioni particolari prima dell'utilizzazione.
    S60: Questo materiale e/o il suo contenitore devono essere smaltiti come rifiuti pericolosi.
    S61: Non disperdere nell'ambiente. Riferirsi alle istruzioni speciali/schede informative in materia di sicurezza.

    La concentrazione di benzo[a]pirene deve rispondere a limiti stringenti: 1 ng/m3 nell'aria e 0,01 mg/L nell'acqua. Queste soglie erano state fissate dal Decreto Ministeriale 494H25NO del 25 novembre 1994, che rendeva attive le soglie indicate a partire dal 1° gennaio 1999. Le direttive del decreto ministeriale erano state poi recepite dal Decreto Legislativo 152/2007.
    Tale normativa poneva l'Italia all'avanguardia nel controllo delle sostanze inquinanti, regolamentato a livello europeo dalla direttiva 2004/107/CE.

    Da queste premesse politico-sanitarie prende il via la storia del decreto salva-ILVA.
    Il 27 aprile 2010 l'ARPA Puglia invia infatti un fax a PeaceLink, riportato nell'immagine qui sotto, dove viene denunciata la situazione delle abnormi emissioni di benzo[a]pirene nella zona di Taranto a causa della cokeria ILVA.
    A questo link i risultati del più recente monitoraggio ILVA presente sul sito dell'ARPA Puglia.

    Il fax inviato dall'ARPA Puglia a PeaceLink

    PeaceLink apre un esposto alla Procura di Taranto ed è a questo punto che inizia la gara tra il potere giudiziario, che vuole far rispettare la legge vigente, ed il potere esecutivo, che vuole salvare l'ILVA.
    I limiti imposti dalla legge prevedono infatti l'obbligo assoluto di adeguare i livelli di emissioni, pena il sequestro e la chiusura delle strutture inquinanti.

    Già il 13 maggio 2010 il Governo si riunisce quindi in Consiglio dei Ministri3 e viene stabilito il piano di azione: grazie alla Legge Delega 88/2009 il governo può genericamente legiferare per l'adempimento degli obblighi comunitari. La direttiva europea 2008/50/CE cade a proposito: parla proprio di qualità dell'aria, ed ecco che il gioco è fatto.
    La norma salva-ILVA verrà annegata in un Decreto Legislativo, saltando così il passaggio alle Camere.

    Il testo passa alla valutazione delle commissioni della Camera tra il 22 giugno ed il 21 luglio 2010, e a quelle del Senato tra il 29 giugno ed il 21 luglio 2010.
    Nel dibattito alle Camere si assiste al gioco di una maggioranza connivente con gli interessi dei grandi gruppi industriali e di un'opposizione inconsistente, che pur vantando due ex-presidenti di Legambiente (Realacci alla Camera e Della Seta al Senato, entrambi PD) non muove critiche di rilievo al provvedimento.

    Il tema viene ripreso dal Consiglio dei Ministri del 30 luglio 2010, e infine il 13 agosto viene alla luce il Decreto Legislativo 155/2010.

    All'articolo 9 comma 2 del decreto si legge:

    Se, in una o piu' aree all'interno di zone o di agglomerati, i livelli degli inquinanti di cui all'articolo 1, comma 2, superano, sulla base della valutazione di cui all'articolo 5, i valori obiettivo di cui all'allegato XIII, le regioni e le province autonome, adottano, anche sulla base degli indirizzi espressi dal Coordinamento di cui all'articolo 20, le misure che non comportano costi sproporzionati necessarie ad agire sulle principali sorgenti di emissione aventi influenza su tali aree di superamento ed a perseguire il raggiungimento dei valori obiettivo entro il 31 dicembre 2012. Il perseguimento del valore obiettivo non comporta, per gli impianti soggetti al decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59, condizioni più rigorose di quelle connesse all'applicazione delle migliori tecniche disponibili.


    Rispetto alla versione precedente della legge vi sono due sostanziali differenze.
    La prima, plateale, sposta il termine per gli adempimenti sull'emissione di inquinanti, benzo[a]pirene compreso, al 31 dicembre 2012 rispetto al 1 gennaio 1999.
    La seconda, più subdola, permette comunque di non rispettare tali adempimenti nel caso in cui la loro attuazione comportasse costi "sproporzionati". Un salva-ILVA a tempo virtualmente indeterminato.
    Ma c'è di più: spulciando tra allegati e tabelle emerge che questa legge abroga i limiti di benzo[a]pirene per tutti gli agglomerati urbani sopra i 150.000 abitanti, e se è vero che non in tutte le città esiste l'ILVA è altrettanto vero che il benzo[a]pirene è un composto rilasciato dai gas di scarico delle auto. Questa legge consentirà alle amministrazioni locali, quindi, di soprassedere sugli interventi di miglioramento della qualità dell'aria semplicemente legalizzando situazioni precedentemente illegali.

    Non appena pubblicato il Decreto Legislativo in Gazzetta Ufficiale, il 15 settembre 2010, PeaceLink ha attivato una campagna di informazione e sensibilizzazione sul tema, che forse qualche effetto è riuscito ad ottenerlo.
    Punto sul vivo, unico tra le opposizioni il Partito Democratico è tornato sui propri passi e tramite Ermete Realacci ha promesso una risoluzione che obblighi il governo a tornare sui propri passi.
    Il 30 settembre 2010 il deputato PD Alessandro Bratti ha effetivamente presentato la risoluzione 7-00393 in cui impegna il governo a riportare i vincoli di emissione del benzo[a]pirene a quanto prescritto del Decreto Legislativo 152/2007.
    Sebbene l'audizione fosse prevista per il 6 ottobre 2010, dai resoconti dei lavori della Commissione VIII (Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici) il tema risulta rimandato.
    La storia, quindi, continua, e sarà interessante capire in quale direzione si evolverà. La paternità del comma incriminato verrà disconosciuta da tutti e la norma morirà pacificamente oppure la maggioranza tenterà di difendere il decreto?

    E in tutto questo che cosa dice la Costituzione?

    Art. 32: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
    Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

    Art. 41: L'iniziativa economica privata è libera.
    Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
    La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

    Come spesso accaduto in questi ultimi anni, non è quindi escluso che debba essere in ultima istanza la Corte Costituzionale a porre fine all'ennesima brutta storia italiana, dove la legge, e soprattutto la legge in materia ambientale, fa comodo solo fino a quando non deve essere applicata.



    1: le classificazioni IARC entrano a far parte delle fonti del blog
    2: la pagina di ricerca delle direttive UE entra a far parte delle fonti del blog
    3: la pagina di riepilogo dei Consigli dei Ministri entra a far parte delle fonti del blog

    martedì 5 ottobre 2010

    Drenaggio fiscale: chi ci guadagna?

    Il modulo 730

    Il Decreto Legge 384/1992, convertito in Legge 438/1992, ha segnato un passo epocale per milioni di contribuenti, modificando la gestione del fiscal drag dell'IRPEF rispetto a quanto previsto nel Decreto Legge 69/1989 (convertito in Legge 154/1989).

    Secondo la normativa del 1992, infatti, l'adeguamento automatico di aliquote e detrazioni al tasso di inflazione si ritrovava ad essere azzoppato. L'articolo 9 comma 1 del decreto recita infatti:

    Le disposizioni dei commi 1 e 2 dell'articolo 3 del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 aprile 1989, n. 154, si applicano limitatamente alle detrazioni di imposta e ai limiti di reddito previsti negli articoli 12 e 13 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917.

    Scompare quindi il ritocco automatico alle aliquote.

    Questo significa che una persona il cui reddito aumenta di un valore pari all'inflazione e così facendo supera il valore di un'aliquota si ritrova a dover pagare più tasse senza avere avuto nessun incremento del suo reale potere d'acquisto, proprio perché le aliquote IRPEF smettono di essere automaticamente adeguate al valore dell'inflazione. Questo fenomeno è chiamato per l'appunto fiscal drag, o drenaggio fiscale.
    Nel corso degli anni si sono succedute svariate riforme fiscali che hanno più volte rivoluzionato gli scaglioni IRPEF, esemplificato nella tabella seguente. I valori precedenti al 2002 sono convertiti in euro secondo il cambio 1 € = 1.936,27 £. I limiti degli scaglioni sono riferiti alla valuta corrente per ciascun anno.

    Aliquote IRPEF a valori nominali nel corso della II Repubblica

    Lo scopo di questa analisi è tentare di scoprire se, quanto e per quali fasce di reddito vi sia stata una restituzione del fiscal drag ai contribuenti.
    Per avere i valori di inflazione mi sono servito del sito www.rivaluta.it, ed il risultato è la seguente tabella:

    Evoluzione di redditi campione e
    rispettive aliquote IRPEF nella II Repubblica

    Nella medesima tabella viene mostrata la rivalutazione di alcuni importi campione nel corso degli anni, mostrando di fianco la relativa aliquota.

    Occorre naturalmente premettere che, utilizzando particolari combinazioni di importi, si possono ottenere risultati in grado di dimostrare qualsiasi teoria sul tema.
    Trovo però che alcune tendenze siano assolutamente generali.
    Le cifre a cui farò riferimento, salvo indicazioni specifiche, sono quelle rivalutate al 2010.

    Le fasce più povere della popolazione (prime due colonne) sono state sufficientemente tutelate in termini di restituzione del fiscal drag, con un'armonizzazione all'aliquota del 23% che ha comportato maggiori oneri per i redditi intorno ai 7.000 euro e minori oneri per quelli intorno ai 15.000 euro.
    I redditi più alti, quelli che possiamo situare dai 100.000 euro in su, hanno inoltre visto una costante e continua diminuzione delle imposte, specie per quei redditi che partivano nel 1994 da un'aliquota del 51%.
    Per i redditi intermedi è da segnalare il curioso caso di una fascia di reddito che negli ultimi anni ha visto costantemente salire le proprie aliquote: nel 2005 i redditi tra 26.000 e 29.000 euro dell'epoca si sono visti balzare dal 29% al 33%, mentre nel 2007 analoga sorte è toccata a quelli tra 28.000 e 33.500 euro, passati dal 33% al 38%.
    La terza colonna della tabella evidenzia nel dettaglio il fenomeno
    L'analisi rivela quindi come le continue evoluzioni degli scaglioni, che in teoria avrebbero dovuto mantenere la funzione di restituzione del fiscal drag, nel corso degli anni abbiano penalizzato in maniera corposa una parte consistende del cosiddetto ceto medio, le fasce di reddito più popolate della scala sociale italiana, a favore soprattutto dei ricchi e dei super-ricchi.
    Confronto
    1994 - 2010

    Per concludere, credo sia esplicativa la tabella a lato, che mostra quali sarebbero le aliquote IRPEF attuali se gli scaglioni del 1994 fossero stati riattualizzati secondo l'inflazione, e mettendoli a confronto con le aliquote in vigore.

    Non si tratta di un'evoluzione storica, come nel caso precedente, ma di un confronto secco che mostra una volta di più come i maggiori vantaggi fiscali si siano avuti per le fasce di reddito più alte, un risparmio ancora più consistente se si contassero gli importi assoluti anziché le cifre percentuali. I redditi tra 28.000 e 46.000 euro sono stati invece quelli maggiormente penalizzati; escludo dall'analisi le prime righe della tabella in quanto per tali fasce di reddito le detrazioni e le altre forme di sostegno rendono il tema aliquote quasi del tutto ininfluente.
    Emerge pertanto anche da questa prospettiva l'atteggiamento dei governi della II Repubblica: tutela dei redditi bassi, sgravi fiscali ai redditi alti, e rincaro degli oneri alla popolosa fascia centrale.

    Una scelta politica che mi sento di definire sbagliata non per sentimenti di vendetta sociale ma per mero calcolo: un grosso risparmio per i pochi super-ricchi è meno salutare all'economia del Paese di un piccolo risparmio per molte persone a medio reddito. Sono infatti questi ultimi a trainare la domanda interna, fonte primaria del mercato.
    Related Posts with Thumbnails