mercoledì 29 febbraio 2012

Dichiarazioni di trasparenza e riflessione

Il Governo Monti

Non molti giorni fa si è conclusa la cosiddetta "operazione trasparenza" da parte del Governo, ovvero la pubblicazione, sul sito ufficiale dell'esecutivo, dello stato patrimoniale dei Ministri e dei Sottosegretari che compongono la formazione di Mario Monti.
La messa on-line dei dati non ha mancato di suscitare scalpore, dando spunto a commenti e analisi tanto dalla blogosfera quanto dai principali quotidiani e intasando per diverso tempo il sito stesso a causa dell'elevatissimo numero di accessi e download.

Ciò che colpisce e fa riflettere, tuttavia, sono i toni e gli argomenti utilizzati tanto dalla stragrande maggioranza dei giornalisti, quanto dalla quasi totalità dei lettori negli spazi per i commenti messi a disposizione dalle testate.
Il tema focale, ovvero il desiderio di fare trasparenza e indicare con precisione lo stato patrimoniale dei componenti del Governo e le relative analisi su eventuali conflitti di interesse, ha lasciato rapidamente il fatto ad una rapida e generalizzata indignazione per i volumi dei redditi pubblicati, che evidenziano senza quasi eccezioni un esecutivo di Paperoni.

Dichiarazioni 2010 e compensi dei componenti
del Governo Monti

Come evidenzia la tabella, che riporta rispetto ai dati pubblicati solo la dichiarazione dei redditi 2010 ed il compenso percepito per il ruolo di governo, i valori indicati sono oggettivamente alti.
Se il compenso percepito dallo Stato oscilla intorno a poco meno di 200.000 €, le cifre si innalzano enormemente se si osservano le dichiarazioni dei redditi del 2010: il valore medio, tra coloro che hanno riportato il dato, è di oltre 700.000 €, compresi tra i 7.005.649 € del Ministro della Giustizia Severino ed i 60.242 € del Sottosegretario all'Istruzione Ugolini.
Tra i 33 membri del Governo che hanno indicato i redditi 2010, appena 3 dichiarano meno di 100.000 €, nove sono tra i 100.000 € ed i 200.000 €, undici tra i 200.000 € ed i 500.000 €, tre tra i 500.000 € e 1.000.000 €, quattro tra 1.000.000 e 2.000.000 €, uno tra 2.000.000 € e 5.000.000 € e infine uno oltre i 5.000.000 €.
Si tratta di valori - salvo forse i tre più bassi - in ogni caso altissimi, cifre spesso ben oltre la portata dei guadagni non di un anno, ma di una vita intera per la stragrande maggioranza della popolazione, e proprio su questo si sono concentrate le attenzioni dei principali giornali italiani.

Particolarmente sensibile al tema, come sempre quando si parla di trasparenza e di "Casta", si è dimostrato Il Fatto Quotidiano, che ha dedicato alla vicenda più di un articolo.
Tra i pezzi più interessanti dedicati dal quotidiano di Padellaro spicca sicuramente Il Governo del 5%, di Giulietto Chiesa, in cui si evidenzia come i membri del Governo appartengano senza esclusione di colpi a quel 5% della popolazione che dichiara - con tutte le riflessioni sull'evasione fiscale che questo verbo comporta - oltre i 200.000 € annui. Riallacciandosi ad un misto tra il buon senso e Karl Marx, Chiesa si interroga su quanto chi vive nell'Olimpo dplutocratico del Paese possa conoscere delle esigenze del restante 95% della popolazione, alle prese con problemi di tipo ed entità forse sconosciuti a chi detiene simili livelli di reddito e ricchezza.
Approfondisce ulteriormente l'analisi, sempre sul medesimo giornale, Luca Telese con il suo Redditi dei Ministri: è vera gloria?, in cui, pur rispettando la ricchezza degli esponenti del Governo, la usa come grimaldello per valutare i loro comportamenti e le loro posizioni.

Nei commenti l'attacco velato alla ricchezza dei Ministri degli articoli diventa aperto, e arriva a toccare un nervo scoperto della società capitalista occidentale: quanto è etico guadagnare una cifra così esorbitante rispetto alla stragrande maggioranza della popolazione? Con il termine etico non si intende naturalmente indagare sulla provenienza più o meno lecita della ricchezza di Monti e della sua compagine, quanto piuttosto interrogarsi sulle basi filosofiche del concetto di proprietà privata.
In un mondo in cui il dogma della crescita infinita sembra quantomai in crisi, in cui le risorse e le ricchezze sono limitate e in cui un accumulo da una parte genera invariabilmente una scarsità dalla parte opposta, non dovrebbe essere fissato un limite alla ricchezza individuale? Ma, dalla parte opposta, se una persona per merito o per fortuna viene in possesso di una simile ricchezza in maniere legali, perché il suo diritto a tale possesso dovrebbe essere messo in discussione?
A complicare e confondere ulteriormente le idee è stata la semplificazione - naturalmente errata - di ragionamento che vuole che poiché i membri del Governo sono dipendenti pubblici, anche quanto guadagnato in precedenza debba essere stato pagato con soldi pubblici. A maggior ragione si è gridato allo scandalo per i redditi principeschi dei membri del Governo, ma la realtà è ben differente: molto pochi di coloro che compongono l'esecutivo avevano in precedenza un incarico pubblico, e nessuno tra quelli con i redditi più alti. L'ipotesi di porre un limite alla ricchezza deve scontrarsi anche con questo importante fattore: i soldi con cui Paola Severino, per citare l'esempio più eclatante, ha costruito il suo reddito 2010 non provenivanodallo Stato, ma da altri privati. Perché dovrebbe essere fissato un tetto ad un simile ammontare? Sulla base di quali vincoli legali?
Lo strumento a disposizione dello Stato per la redistribuzione della ricchezza già esiste, e sono le tasse: attraverso il fisco lo Stato raccoglie la ricchezza dei singoli in un bacino comune e la utilizza per fornire i servizi a cui siamo abituati. La progressività della tassazione è di per sé garanzia che i ricchi finanzieranno i servizi per i più poveri... o almeno così sarebbe in un regime teorico di tassazione, senza evasione ed elusione. Se lo strumento è imperfetto o starato, quindi, è possibile correggerlo, senza andare ad invocare misure che se una persona dovesse subirle non troverebbe poi così gradite.

Un altro spunto di riflessione generato dalla pubblicazione dei redditi e dei compensi dei Ministri è il fatto che per quasi tutti l'assunzione della carica pubblica ha significato un abbassamento del reddito, per lo meno di quello espressamente monetario. Istintivamente un simile accostamento non può che far pensare all'integrità di persone che rinunciano a maggiori guadagni per servire lo Stato, ma deve tuttavia essere interpretato con la giusta dose di pensiero critico da parte di chi oggi si erge a paladino contro la Casta dei politici. Nel bene o nel male, fare il politico è una professione. Entrare in politica, per una persona normale, significa abbandonare un impiego, spesso senza alcuna garanzia di riaverlo al termine del mandato. Non è solo naturale, ma è anche giusto che la politica debba essere fonte di sussistenza per chi se ne occupa, nel momento in cui se ne occupa. Il rischio è infatti una sorta di deriva di censo, tale per cui solo chi ha alle spalle capitali consistenti potrà permettersi di sedere in Parlamento o in generale assumere cariche pubbliche, segnando un'imperfezione drammatica nella qualità della nostra democrazia. Chiaramente lo scenario prospettato è estremo, ma altrettanto estreme, ad oggi, sono le posizioni di molte persone che guardano alla politica con una certa miopia, pensando non tanto a come la politica dovrebbe funzionare, ma solo ai mali che la classe dirigente italiana ha compiuto negli anni.

Troppo inosservato è passato invece l'atto in sé, la pubblicazione in quanto tale, la messa a disposizione dei dati personali di reddito e patrimonio, e soprattutto la valutazione offerta al cittadino sul grado di conflitto di interesse. Eppure anche su questo tema gli spunti di riflessione non mancano: quanto vale per il reddito personale non può valere per le proprietà? Se si costruisce e si promuove l'immagine del politico di passaggio, del cittadino prestato alla politica, a maggior ragione chiedere ad una persona di rinunciare - con tutti i costi che magari questo comporta, come vendere azioni o obbligazioni in un momento sfavorevole - ad alcune delle sue proprietà deve essere qualcosa che si deve pretendere con la giusta misura. In caso contrario si ricade di nuovo nel circolo vizioso di una democrazia basata sul censo, dove solo chi ha le spalle coperte può permettersi di affrontare la politica.

Forse nemmeno il Presidente Monti e suoi Ministri si aspettavano tanto, pubblicando le proprie dichiarazioni dei redditi; hanno tuttavia avuto il merito, oltre di aver dimostrato una trasparenza senza pari tra i politici degli ultimi anni, di spronare la popolazione italiana a riflettere su importanti questioni di fondo che troppo spesso vengono date per scontate oppure ignorate, lasciandole facile preda della demagogia.

sabato 25 febbraio 2012

Democrazia e libertà di espressione

Vignetta di Vauro contro la Legge Bavaglio in Italia

Articolo scritto in collaborazione con Valentina Pastorello


Negli ultimi secoli, con la diffusione degli ideali dell'Illuminismo, il benessere dell'individuo è diventato un concetto sempre più importante nel mondo occidentale. Questa tendenza si riflette nell'applicazione del concetto di welfare state e nella tutela legale di un certo numero di diritti inalienabili. Molte legislazioni nazionali e sovranazionali oggi riconoscono la libertà di parola e di espressione come uno di questi diritti. Ad esempio, l'articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (1948) recita:

Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

Tuttavia, fino a che punto questa libertà debba essere tutelata dalla legge è ancora oggetto di dibattito. C'è infatti chi vorrebbe imporre alcune limitazioni che facciano prevalere altri valori, quali ad esempio il rispetto della verità, dell'onore, dell'ordine pubblico e della moralità.
Uno dei temi su cui il dibattito è particolarmente acceso è quello del revisionismo storico (negazionismo). Tuttavia, il pluralismo di espressione è una componente fondamentale di ogni democrazia sana, e sebbene in alcuni casi un certo numero di limitazioni sia necessario per negoziare tra i diritti delle parti coinvolte, tale necessità deve sempre essere supportata da motivazioni ragionevoli, come stabilito dalla Corte Europea dei Diritti Umani.1

In primo luogo, l'importanza fondamentale della libertà di parola ed espressione risiede nel fatto che promuove la crescita culturale e di conseguenza il progresso, dal momento che l'esercizio di tale diritto riguarda la diffusione della produzione artistica in tutte le sue forme e la possibilità di scambiare punti di vista e informazioni in tutti i campi del sapere. Per esempio, la diffusione della conoscenza storica è necessaria per evitare gi errori del passato e trovare nuove soluzioni per costruire un presente e un futuro migliori.

L'effetto positivo della libertà di espressione in una democrazia è particolarmente evidente se si considerano i diritti che discendono direttamente da tale libertà, ovvero la libertà di stampa e la libertà di informazione,2, che dovrebbero essere analogamente protetti dalla legge dato che l'espressione di un pensiero è inscindibile dalla sua condivisione. Servendosi del diritto di diffusione dell'informazione, i media sono diventati una componente essenziale di qualsiasi sistema democratico, poiché agiscono come organo di controllo verso i tre poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario), nel tentativo di raggiungere una maggiore trasparenza che consenta al corpo elettorale di giudicare i politici nel modo più equo. In altre parole, informando i cittadini i media fanno in modo che questi possano esercitare il loro diritto di voto in maniera consapevole.
Negli ultimi due decenni Internet si è rapidamente diffuso in tutto il mondo, segnando un balzo in avanti senza precedenti nel processo di condivisione delle informazioni, che è diventato sempre più semplice, rapido ed efficace. La libertà di espressione ha tratto benefici enormi dalla diffusione di Internet. La rete si differenzia dai mezzi di comunicazione tradizionali come la stampa, la radio e la televisione poiché è condivisa, e pertanto difficile da possedere o da controllare (sebbene non impossibile, come dimostrato dal Golden Shield Project, attraverso il quale in Cina viene attuata la censura su Internet). Inoltre, con i media tradizionali la trasmissione delle informazioni avviene in maniera unidirezionale, mentre la rete consente ai suoi utenti di connettersi tra loro, condividere risorse e contenuti e addirittura introdurre nuovi servizi e tecnologie. Così facendo, gli utenti di Internet contribuiscono ulteriormente al suo sviluppo, rafforzando il principio del pluralismo dell'informazione.

È evidente che ci sia un rapporto molto stretto e spesso conflittuale tra potere politico e mezzi di informazione. In effetti, se da un lato i media hanno la capacità di esercitare un ruolo di supervisione sui tre poteri dello Stato, dall'altro coloro che detengono tali poteri hanno la possibilità di imporre limiti legali alla libertà di informazione. Un esempio recente è costituito dalla proposta di legge sulle intercettazioni in Italia, che nel 2010 ha ricevuto forti critiche dalle Nazioni Unite. Secondo l'opposizione, questa legge, oltre a favorire attività illegali, aveva il reale intento di proteggere gli interessi del Primo Ministro di allora, Silvio Berlusconi, coinvolto in un certo numero di inchieste. Il governo italiano sosteneva invece che lo scopo della legge era quello di proteggere la privacy dei cittadini. In effetti, gli argomenti usati per giustificare misure restrittive come questa riguardano di solito la necessità di prevenire i danni causati dall'abuso della libertà di espressione. Come evidenziato da Mill nel suo saggio del 1859 On Liberty3, alcune limitazioni possono essere imposte per "prevenire danni a terzi", ed in effetti la diffamazione e l'istigazione all'odio ricadono in questa categoria; quest'ultima in particolar modo, poiché non solo provoca stress psicologico ed emotivo in chi ne è colpito, ma incoraggia anche alla violenza fisica verso tali soggetti.4
Un altro concetto che viene chiamato in causa per sostenere le limitazioni alla libertà di espressione è la moralità: le opinioni immorali o le rappresentazioni del vizio nell'arte possono essere oggetto dell'intervento della censura, che agisce così con scopo educativo. Tuttavia, come evidenziato da Ainis5, la censura non raggiunge tale scopo in quanto è solamente in grado di inibire la rappresentazione dei vizi, e non i vizi stessi.
Una delle questioni più controverse che riguardano il tema della libertà di espressione è il negazionismo. Sebbene la negazione dell'Olocausto sia sanzionata in molte legislazioni dell'Unione Europea, i movimenti antisemiti e i partiti politici ispirati a ideologie simili sono spesso ancora presenti in questi Stati. L'antisemitismo è un fenomeno culturale con radici storiche molto profonde, per cui l'utilità di imporre un mero divieto formale è altamente discutibile6. Ridurre al silenzio i negazionisti può persino avere l'effetto indesiderato di avvantaggiarli, facendoli apparire come martiri o eroi perseguitati7. Inoltre, la ricerca della verità è una responsabilità dell'individuo che non dovrebbe mai essere delegata allo Stato. Proibire il negazionismo significa imporre una verità storica per forza di legge, e quindi non avere fiducia nella capacità della verità di difendersi da sola5. Ma soprattutto, simili provvedimenti possono portare ad una deriva proibizionista, ovvero alla censura di qualsiasi opinione venga considerata socialmente inaccettabile in un dato momento storico6.

In generale, più che gli abusi della libertà di espressione è proprio l'imposizione di vincoli legali a tale libertà che costituisce una minaccia per la democrazia, poiché spesso nasconde la volontà della politica di reprimere il dissenso e occultare di fronte all'opinione pubblica attività di stampo illegale. Le autorità politiche possono mettere a repentaglio l'attività di monitoraggio dei media attraverso la repressione o il controllo.
La prima è usata principalmente da governi autoritari o dalla criminalità organizzata, utilizza strumenti che vanno dalle minacce all'imposizione di sanzioni o l'intervento dell'autorità giudiziaria, specialmente nei confronti della satira e del giornalismo d'inchiesta. Molti giornalisti pagano con la vita l'esercizio della libertà di informazione, uno degli esempi più recenti è la giornalista russa Anna Politkovskaya, nota per la sua opposizione a Vladimir Putin, che era il Presidente della Russia al momento della sua morte. Altri sono costretti a vivere nascosti e sotto scorta, come lo scrittore italiano Roberto Saviano, colpevole di aver rotto il muro di omertà sulla Camorra.
In secondo luogo, i politici possono esercitare un controllo diretto e completo su stampa, radio e tv, così da trasformare l'informazione in propaganda governativa, manipolare l'opinione pubblica ed eliminare ogni forma di dissenso. In questo caso il Paese resta solo formalmente una democrazia, ma di fatto non è molto diverso da una dittatura. Quando in un sistema legale non vi sono leggi contro il conflitto di interessi è molto più alta la probabilità che i politici prendano il controllo dei media, o viceversa, che chi possiede i mezzi di informazione acquisti potere politico.

In entrambi i casi l'esistenza stessa della democrazia è in serio pericolo, dal momento che soffocare i media significa privare i cittadini della possibilità di ricercare le informazioni, di istruirsi, e, in ultima analisi, di giudicare le azioni dei politici per esercitare con maggiore consapevolezza il proprio diritto di voto. Questo è evidente se si mettono a confronto i principali indici di misurazione del livello di democrazia e di libertà di stampa nel mondo: analizzando le prime venti posizioni del Press Freedom Index del 2010 di Reporters sans Frontières e del Democracy Index dello stesso anno stilato dall'Economist risulta infatti che ben sedici Paesi appaiono in entrambe le classifiche. Dal momento che la libertà di stampa è uno dei criteri presi in considerazione nella determinazione del Democracy Index, tale correlazione sottolinea l'importanza di tale libertà in una democrazia completa.

In conclusione, sarebbe certamente saggio limitare le restrizioni legali alla libertà di espressione. I suoi abusi, reali o presunti, devono essere combattuti soprattutto sostenendo un'istruzione che incoraggi lo sviluppo delle capacità critiche e analitiche, permettendo la libera condivisione delle informazioni e promuovendo lo scambio di differenti punti di vista tramite dibattiti aperti. Per cercare di porre fine alla lotta tra potere politico e libertà di informazione e quindi per proteggere la funzione di controllo della stampa sulla politica, sarebbe auspicabile un miglioramento delle legislazioni sovranazionali in materia.


Bibliografia
1: Rekvényi v. Hungary [1999] 30 E.H.R.R. 519
2: Modugno, F. (1995) I "nuovi diritti" nella Giurisprudenza Costituzionale, Torino: Giappichelli
3: Mill, J.S. (1956) On Liberty, Indianapolis: BobbsMerrill
4: Pino, G. (2007) "Teoria critica della razza e libertà di espressione: alcuni punti problematici", in Differenza razziale, discriminazione e razzismo nelle società multiculturali, T. Casadei & L. Re (eds.) Vol. I: Società multiculturali e questioni razziali, Reggio Emilia: Diabasis
5: Ainis, M. (2007) "Le libertà negate: a proposito della libertà di espressione", in La storia imbavagliata, G. Moffa (ed.), Teramo: MEM
6Rodotà, S. (2007, January 26). Libertà di parola, si può mentire sulla storia? La Repubblica, p. 49. Retrieved December 12, 2011, from http://download.repubblica.it/pdf/diario/2007/26012007.pdf
http://www.rsf.org/IMG/CLASSEMENT_2011/GB/C_GENERAL_GB.pdf
7: Spinoza, B. (1670) A Theologico-Political Treatise. Retrieved December 12, 2011 from http://ebooks.adelaide.edu.au/s/spinoza/benedict/treatise/index.html

martedì 21 febbraio 2012

I Death Bond attraversano l'Atlantico

Triomf van de dood (Pieter Bruegel de Oude)

Mr. Jones, ha un'assicurazione sulla vita. Mr. Jones è anziano e malato terminale, non ha una speranza di vita particolarmente lunga, e per di più fatica a pagare il premio della compagnia assicurativa e in generale a tirare avanti. Ha un disperato bisogno di soldi.
Alla sua porta si presenta un giorno Mr. Brown, broker finanziario. Mr. Brown fa un'offerta all'anziano Mr. Jones: Mr. Brown è disposto sostanzialmente a rilevare l'assicurazione sulla vita di Mr. Jones, pagandola sull'unghia una frazione della quota che questi incasserà alla sua morte (generalmente il 40%). In questo modo Mr. Jones avrà una iniezione di liquidità che soddisfa il suo bisogno contingente, e Mr. Brown avrà pagato per un credito presso la compagnia assicuratrice pagandolo una frazione del valore che incasserà in futuro. Naturalmente, più a lungo vivrà Mr. Jones, più si assottiglierà il margine di guadagno per Mr. Brown, con il rischio addirittura di trasformare l'investimento in perdita nel caso in cui Mr. Jones dovesse ancora vivere molto a lungo.

Ciò che esce fuori da questo processo è un vero e proprio prodotto finanziario, che può essere scambiato sul mercato, aggregato in veri e propri pacchetti e ritrovarsi così nei portafogli di inconsapevoli risparmiatori, fondi pensione o nella capitalizzazione delle stesse banche e assicurazioni. Un prodotto a rischio relativamente basso - tutti dobbiamo morire - ma che forse evidenzia uno dei volti più feroci e rapaci del capitalismo sfrenato.
Chiamati formalmente Life Settlement Backed Securities ma conosciuti ai più con il triste nome di death bonds, simili strumenti finanziari non sono precisamente una novità nel panorama dei prodotti messi a disposizione dalle banche e dalle assicurazioni: conobbero anzi un vero e proprio momento di gloria nella seconda metà degli anni '80, quando era al culmine la piaga dell'AIDS e centinaia di speculatori piombarono sui malati terminali di questa terribile malattia per offrire loro il viatical settlement, come allora era chiamata la vendita della polizza assicurativa sulla vita.
I progressi della medicina, uniti alle numerose cause legali contro il comportamento piratesco di alcuni promoter, calmierarono il mercato dei death bonds senza tuttavia estinguerlo; gli ultimi anni hanno tuttavia visto il ritorno in auge di questo strumento: da un valore quasi nullo di obbligazioni scambiate nel 2001 si è passati, in accordo con quanto riportato dall'articolo Profiting From Mortality pubblicato su Businessweek il 30 luglio 2007, a dieci miliardi di dollari nel 2005, a quindici nel 2006 e ad un risultato atteso di trenta per il 2007. Una crescita esponenziale, accompagnata da pratiche che variano dal discutibile al truffaldino, da un accanimento sui membri più deboli, anziani e malati della popolazione la cui morte diventerà fonte di profitto per il mercato globale.

La novità finanziaria degli ultimi tempi è che i death bonds varcano l'Atlantico per approdare nel Vecchio Continente, trovando per di più un emettitore d'eccezione: nientemento che la Deutsche Bank, quarto gruppo europeo per capitalizzazione e primo in Germania... un Paese che oggigiorno è già fin troppo facile legare ai grandi gruppi bancari. Soprattutto il gruppo che, per bocca del suo presidente Josef Ackerman, aveva dichiarato che la banca sentiva una particolare responsabilità nel perseguire scopi economici in modo onorevole e morale:

Als Marktführer in Deutschland und eine der führenden Banken weltweit sehen wir uns in einer besonderen Verantwortung, uns nicht nur an gültige Regeln und Vorgaben zu halten, sondern unsere ökonomischen Ziele auf ehrbare, d.h. moralisch vertretbare Weise zu erreichen.

Cosa c'è di immorale nei death bonds, dopotutto?
Colui che vende la polizza, in fondo, riceve dei soldi di cui ha - evidentemente - un bisogno immediato; per la compagnia nulla cambia, se non il destinatario a cui verserà l'ammontare pattuito alla morte del contraente; e per il compratore, infine, si prospetta un guadagno a termine pari all'ammontare incassato dalla compagnia assicuratrice meno il prezzo di acquisto della polizza ed i premi pagati fino al momento della morte del contraente. Tutte le parti, quindi, hanno motivi di soddisfazione.

Andando però a indagare nel dettaglio, emergono alcuni punti che consentono di inquadrare meglio il fenomeno.
In primo luogo è evidente che, per quanto la vendita della polizza possa essere volontaria, si tratta pur sempre di una rinuncia dettata da un bisogno impellente di liquidità; inoltre la vendita della polizza avviene a prezzi nettamente squilibrati a favore dell'investitore e contro il contraente, che arriva a rinunciare al 60% del proprio incasso finale (al netto dei premi ancora da pagare).
Si potrebbe osservare che alla fine il trasferimento della polizza dal contraente all'investitore trasla lo scontro tra chi perde e chi guadagna ad un mondo puramente finanziario: alla fine sarà uno tra la compagnia assicurativa e l'investitore a vincere la scommessa... non bisogna però dimenticare che in questo caso la scommessa è sulla durata di una vita umana, ed il margine di profitto è costituito per la compagnia assicurativa dalla differenza tra premio e somma versata alla fine, e per l'investitore tra somma versata e prezzo di acquisto polizza più premi pagati. Da questo punto di vista il prodotto finanziario avrebbe come obiettivo principalmente le assicurazioni, ma non si deve dimenticare che spesso la differenza tra attivo e passivo viene fatta proprio sui premi pagati inizialmente dal contraente.
Infine, non si deve trascurare un importante risvolto etico e morale; non tanto incentrato sull'atto in sé di scommettere sulla durata della vita di una persona, quanto piuttosto sul sistema valoriale che la ricerca della vittoria in questa scommessa porta a generare: il contraente originale della polizza varrà tanto di più quanto minore è la sua aspettativa di vita, rendendo una persona un premio tanto più ambito quanto più è anziana o inferma... e per molti aspetti, quindi, raggirabile da un abile promotore finanziario. Inoltre, dal punto di vista macroeconomico, i death bond costituiscono un valido indicatore della qualità della vita: tanto più essa è bassa, tanto maggiore sarà il giro di affari di questi prodotti. Scenari di guerra, o di disagio sociale, sono una manna per gli investitori sulla vita e sulla morte delle persone. Al tempo stesso, considerata l'attuale, profonda, commistione tra potere economico e potere politico, non vi è nulla che vieti a politici interessati di avviare riforme tese verso un generale peggioramento della qualità della vita.

È innegabile che le politiche di austerity relative al tema previdenziale, che prevedono un innalzamento dell'età pensionabile fino alle soglie dei 70 anni nei prossimi decenni, unito al progressivo invecchiamento della popolazione europea, siano al contrario un incentivo per i death bond.
E non è un caso se importanti agenzie di rating come Fitch stiano per la prima volta prendendo in esame la possibilità di offrire valutazioni su simili prodotti, atto mai accaduto in passato.

Sicuramente il diffondersi di simili strumenti certamente non giova all'immagine generale del mondo del credito e della finanza, già da ora additati come i principali responsabili dell'attuale crisi economica. Eppure, imperterrito, questo mondo continua a (re)inventare prodotti finanziari sempre più shockanti, che arrivano a giocare con la vita delle persone in una maniera mai vista prima.

sabato 18 febbraio 2012

Dati AGCom gennaio 2012

Logo dell'AGCom

Sul sito dell'AGCom è da poco apparso il documento relativo al pluralismo politico e istituzionale dei telegiornali nel primo mese di questo 2012.
A Governo Monti ormai stabilmente consolidato, i dati appaiono particolarmente importanti per analizzare i nuovi equilibri generati dal prepotente mutamento delle coalizioni di maggioranza e opposizione. A sostenere l'esecutivo è infatti attualmente una sorta di Grande Centro composto da PdL, PD e Terzo Polo, con opposizioni tanto a destra (Lega Nord) quanto a sinistra (IdV e, fuori dal Parlamento, SEL e partiti comunisti), in una struttura più simile a quella della Prima Repubblica che al bipolarismo della Seconda.

Le tabelle ed i grafici, rispetto al 2011, sono stati aggiornati per tenere conto di tale mutamento, e specchiare il modo in cui i telegiornali vi si sono adattati.

Dati AGCom gennaio 2012

La tabella dei dati grezzi mostra già di per sé alcuni interessanti risultati, in parte inattesi. Se infatti era scontato attendersi un maggiore spazio ai - pochi - partiti oggi all'opposizione, sono le dimensioni e la direzione di tale spazio a dover far suonare un campanello d'allarme.
La Lega Nord, principale forza di opposizione parlamentare, supera infatti il Partito Democratico e si configura come seconda forza televisiva dopo il Popolo della Libertà, a sua volta prima forza parlamentare di maggioranza.

Una netta polarizzazione a destra dello scontro politico che di fatto taglia fuori dal dibattito pubblico l'analogo fenomeno che sta avvenendo a sinistra tra PD e Italia dei Valori.

Dati AGCom gennaio 2012 aggregati per
area politico-culturale

Dall'istogramma della suddivisione del tempo telegiornalistico in funzione dell'area politica e culturale di riferimento dei partiti, emerge in maniera chiara come pressoché ovunque il dibattito sia tra una destra di opposizione ed un centrodestra di governo, con le due forze stabilmente sopra il 50% del tempo complessivo con la sola eccezione di Rainews. Su TGLa7 questa cifra arriva ad un esorbitante 70%.

Nel silenzio del governo tecnico, l'informazione è stata trascinata a destra in una maniera mai raggiunta prima nemmeno nei periodi più estremi del berlusconismo. PdL e Lega, Lega e PdL, le due formazioni invadono i telegiornali.
Di primo acchito la situazione suscita qualche interrogativo: in effetti la grande alleanza tra i due partiti ad oggi scricchiola pesantemente, e mostrarli così divisi - come tali sono - in televisione di certo non aiuta a ricompattare l'immagine della maggioranza che sostenne Berlusconi fino a novembre 2011. Eppure, secondo l'andreottiano bene o male, purché se ne parli, l'immagine che riesce a passare è quella di una formazione di destra di governo ed una di destra di opposizione: il dibattito politico è limitato ad una sola area, presentando ai cittadini-elettori una scelta puramente dicotomica: potenzialmente, se questa tendenza di manterrà anche nel lungo termine, una mossa vincente per controllare il flusso di elettori in potenziale uscita dal centrodestra e contenerlo nel perimetro della vecchia coalizione del 2008... coalizione che eventuali accordi tra Bossi e Berlusconi potrebbero anche resuscitare all'occorrenza.

Dati AGCom gennaio 2012 aggregati per
Istituzioni - Maggioranza - Opposizione

L'osservazione dell'istogramma che mostra i dati raggruppati per maggioranza, opposizione e istituzioni offre forse altrettanti spunti di riflessione.
Certamente atteso è il rapporto tra maggioranza e opposizione: per quanto possa essere vasto lo spazio politico lasciato alla Lega Nord, la sproporzione tra le forze in campo è tale da non permettere, almeno per il momento, un reale pareggio mediatico tra le due voci.
Ciò che invece colpisce e inquieta è l'elevatissima percentuale attribuita alle istituzioni, ed in particolare alla figura del Presidente del Consiglio: un valore al di sopra della maggioranza assoluta in pressoché tutte le reti - con l'ovvia eccezione del berlusconianissimo TG4 - con picchi anche superiori al 60% sul TG2 e su Rainews. Valori degni del periodo berlusconiano.

Il cambio di governo e il mutato equilibrio parlamentare hanno portato ad una nuova gestione del tempo politico in TV, ma coloro che si aspettavano una miracolosa rinascita della qualità dell'informazione in Italia con la caduta di Berlusconi devono prendere atto che al contrario persiste un nettissimo squilibrio politico - a favore del centrodestra - e istituzionale.
Sotto il cappello dell'emergenza spread si è permesso un vero e proprio monopolio da parte di Monti e del suo Governo sui mezzi di informazione, come se la crisi dei partiti e della politica si fosse trasferita anche in televisione. All'interno dei partiti, poi, l'avere PdL e Lega Nord ai lati opposti della barricata sta trasformando lo scontro politico in un dibattito tra queste due formazioni, relegando ai margini dell'attenzione dei telespettatori le posizioni e la stessa esistenza delle aree di centro e di sinistra.

I governi passano, ma i mali dell'informazione restano tutti.

mercoledì 15 febbraio 2012

Genova, il PD e la sindrome delle primarie

Marco Doria, candidato sindaco a Genova per il centrosinistra

Le primarie del centrosinistra tenutesi il 12 febbraio a Genova hanno scatenato un vero e proprio terremoto politico interno al Partito Democratico, culminato con le dimissioni del segretario provinciale e di quello regionale dopo la sconfitta che le due candidate del PD hanno rimediato contro l'outsider Marco Doria, sostenuto da SEL.

Il copione ricalca in qualche modo quello di Milano, con il candidato espresso dal PD surclassato, i titoloni sui giornali, le dimissioni di massa di diversi esponenti della dirigenza locale, le affannose dichiarazioni dei leader nazionali pronti a fornire qualsiasi interpretazione del fenomeno purché in accordo con la propria strategia politica.
Eppure tanto i giornali quanto i democratici stessi paiono non aver fatto tesoro dell'esperienza di Milano, si ripropongono tematiche e dichiarazioni che davvero mostrano una profonda incomprensione sull'uso delle primarie, o quantomeno uno scollamento tra l'appuntamento così come inteso dal partito e come invece lo immaginano - e lo impongono con il voto - gli elettori.

Le primarie di Genova sono state una sconfitta? E se sì, per chi?
C'è un dato decisamente sottovalutato che pesa come un macigno su questo appuntamento, che dovrebbe far riflettere tutti i partiti della coalizione e che sicuramente non è di buon auspicio in una delle città-simbolo della sinistra in Italia: la partecipazione.
I 25.000 elettori delle primarie 2012 sono oggettivamente pochi, 10.000 in meno rispetto al precedente appuntamento e in relazione alla popolazione una percentuale inferiore rispetto a quella che consacrò Pisapia a Milano. Considerato la tradizione di sinistra di una città come Genova, il risultato è altamente insoddisfacente e questo, ben più del nome del vincitore, dovrebbe essere il vero cruccio non solo di Bersani, ma anche di Vendola, Di Pietro e tutti gli altri leader che si ritrovano nella coalizione di centrosinistra in città.

A questo motivo di partecipazione, reale e di valenza generale, si è tentato di sovrapporne un secondo, limitato al Partito Democratico, che riguarda la cronica incapacità da parte dell'establishment del partito di individuare candidati capaci di imporsi nelle grandi realtà cittadine.
Se si guardano le prime dieci città italiane per popolazione, e tra queste si prendono le sette governate dal centrosinistra, appare il segeuente scenario: a Milano è sindaco Pisapia, che alle primarie ha sconfitto l'esponente PD Boeri; a Napoli il sindaco è De Magistris, che al primo turno si è guadagnato il ballottaggio a scapito del PD Morcone, a Firenze governa Renzi, che pur democratico ha vinto le primarie contro il suo stesso partito. Solo a Torino, Bologna e Bari il principale partito di centrosinistra è riuscito a proporre e far vincere un canditato espresso dal proprio establishment. Fino a ieri in questa ultima lista rientrava anche Genova, ma con la vittoria del SEL Doria il capoluogo ligure ha lanciato un ennesimo messaggio di protesta contro i vertici democratici.
Se nel 2011 il grande numero di città importanti al voto aveva in qualche modo relegato ai margini lo svolgimento delle primarie in realtà minori, l'elevato numero di comuni capoluogo al voto in questo 2012 consente di inquadrare meglio il rapporto tra il Partito Democratico e lo strumento delle elezioni primarie. Asti, Parma, Lecce, Piacenza, Lucca, Monza... in pressoché tutti i comuni in cui si sono tenute le primarie i candidati del PD hanno prevalso nettamente.

Come inquadrare allora il caso di Genova?
Sicuramente sarebbe scorretto ricondurre il tutto alle specificità del capoluogo ligure. Genova è la naturale prosecuzione dei fenomeni di Milano, Napoli e Cagliari, che evidenzia una crescente difficoltà da parte del Partito Democratico nell'individuazione dei candidati adatti per i grossi centri, se non in realtà in cui l'amministrazione del partito aveva già raggiunto livelli di consenso bulgari come a Torino o dove il PD riesce a costituire di per sé un sistema di potere come a Bologna. Laddove la carica di sindaco concerne un grosso centro, in effetti, il suo peso ne risulta nettamente accresciuto, trasformando l'incarico amministrativo in incarico politico. Le frequenti dichiarazioni alla stampa di personaggi come Emiliano (sindaco di Bari) o De Magistris (sindaco di Napoli) su temi di politica nazionale ne sono la prova, allo stesso modo delle frequenti comparsate televisive di Pisapia (sindaco di Milano); l'esempio in assoluto più eclatante è tuttavia Renzi (sindaco di Firenze) che ha usato la sua elezione a primo cittadino per ritagliarsi un ruolo di primissimo piano nel partito e in generale sulla scena politica del Paese.
Nella scelta del primo cittadino per città così importanti, dunque, non è inconsueto che elementi come l'appartenenza territoriale, passate esperienze di buon governo, la vicinanza alla popolazione, passino in secondo piano rispetto a criteri di scelta meno nobili quali il parcheggio per un esponente di spicco non eletto ad altra carica, il premio per il dirigente fedele, o altro.
Inoltre, le grandi città sono per definizione mondi in maggiore fermento rispetto ai piccoli centri, luoghi di sperimentazione anche politica e sicuramente i primi luoghi in cui le novità tendono ad affermarsi e consolidarsi.
Il problema del Partito Democratico, quindi, risiede nella capacità di scelta dei candidati, spesso ritenuta da un elettorato comunque piuttosto attento e critico troppo legata da vincoli e strategie di partito - a torto o a ragione - e non nel reale interesse del territorio. A volte con qualche sorpresa: Fassino, la cui candidatura da molti era considerata come una sorta di pensionamento anticipato per lo storico esponente democratico, ha stravinto le primarie a Torino, e non solo per l'appoggio del suo popolarissimo predecessore Chiamparino. Altrove, candidati comunque di rottura come Boeri sono stati scavalcati da candidature ancora più simboliche, vuoi per le proprie qualità vuoi perché in grado di raccogliere gli appoggi più popolari del momento.

Risultati delle primarie 2012 a Genova
(aggregazione per seggio)

All'interno di questa cornice generale è tuttavia d'obbligo evidenziare le peculiarità delle elezioni genovesi.
In primo luogo, il PD ha espresso due candidati, il sindaco uscente - a cui va comunque il plauso di essersi rimessa in gioco dopo un mandato e avere forse creato un precedente per il futuro - Marta Vincenzi e la senatrice cattolica Roberta Pinotti.
Due candidature dalla forza equivalente, che hanno però avuto l'effetto di annullarsi a vicenda, spianando la strada a Marco Doria, professore universitario targato SEL.

Marta Vincenzi ha ottenuto un pessimo risultato. Malgrado le sue adirate esternazioni su Twitter, è chiaro che il sindaco godeva di scarsa popolarità nel proprio elettorato, vuoi per scelte poco felici vuoi per una errata presentazione alla cittadinanza delle stesse. Temi come la moschea, la gronda, Fincantieri hanno progressivamente appannato l'immagine della Vincenzi, fino alla tremenda alluvione dell'autunno 2011 che ne ha definitivamente minato l'autorevolezza, per quanto fosse oggettivamente impossibile imputare una qualche colpa specifica all'amministrazione comunale in carica. Il 27% dei consensi è comunque un risultato decisamente poco lusinghiero, così come la vittoria in appena quindici dei settantatre seggi (più due in cui si è verificato un pareggio con Doria) in cui si votava. In particolare, la Vincenzi vince o pareggia nei seggi più piccoli, mentre soffre pesantemente nelle zone maggiormente abitate del centro e delle ex aree industriali. Tra le zone cittadine di spessore, infatti, il sindaco viene premiato solo a Rivarolo.

Roberta Pinotti, se possibile, ha fatto ancora peggio, trionfando solo nella sua Sampierdarena. La senatrice cattolica, che in teoria avrebbe dovuto raccogliere attorno a sé i delusi dell'operato della Vincenzi e aprire la strada all'alleanza con il Terzo Polo, ha fallito miseramente nell'impresa, dimostrando il vero errore del PD in questo frangente. Se per la Vincenzi le motivazioni del non voto possono essere ricondotte all'alveo di un dissenso personale, la Pinotti è stata considerata dalla cittadinanza come il simbolo di una svolta centrista che l'elettorato di centrosinistra non gradisce e che ha quindi punito severamente. Né il Terzo Polo ha tentato di influenzare le primarie - sempre a partecipazione libera - con un sostegno nell'urna per la senatrice democratica, evidenziando come anche l'elettorato centrista non sia particolarmente interessato ad un'alleanza verso sinistra.

L'incrocio di questi fattori ha spianato la strada a Marco Doria, il terzo incomodo su cui si sono riversati i voti e le speranze del centrosinistra cittadino. Al di là le battute che accomunando Doria a Monti - anche Doria è docente universitario - mettono in evidenza la passione del PD per i professori al governo, non è trascurabile una componente di esasperazione da parte di una base che desidera un ritorno a sinistra dopo la continua rincorsa al centro che caratterizza i sistemi maggioritari bipolari.

Risultati delle primarie 2012 a Genova
(aggregazione per quartiere)

Mappa dei risultati delle primarie 2012 a Genova

Osservando la distribuzione del consenso, si vede come Doria sia riuscito a imporsi in otto quartieri su nove, tuttavia la distribuzione del voto evidenzia molto bene tanto la struttura dell'elettore tipo dei vari candidati, quanto l'immagine che al giorno d'oggi la sinistra proietta di sé.
Doria ottiene infatti i suoi migliori risultati nel centro cittadino, di fatto arrivando a pareggiare nelle periferie che corrispondono alle ex aree industriali.
Così come Pisapia - che infatti in campagna elettorale dedicò grande attenzione proprio alle periferie meneghine - Doria è espressione di una sinistra intellettuale più che operaia e sicuramente meno inquadrata negli schemi di partito ereditati dalla struttura del vecchio PCI; proprio per questa ragione sfonda nelle classi borghesi che popolano il centro cittadino e invece stenta di più nelle periferie ex operaie... che tuttavia difficilmente faranno mancare il proprio appoggio al momento del voto reale.

Analizzate le cause generali e particolari che hanno determinato l'esito delle primarie a Genova, resta la domanda di fondo: il PD ha perso le primarie? Il fatto costituisce un problema?
La risposta a questa domanda è complessa e certamente non scontata, ma soprattutto dipende da quali sono i reali obiettivi che il partito si pone. Se ci si limita all'espressione del sindaco, è chiaro che l'incapacità del Partito Democratico nel trovare candidati vincenti è un grave problema, e non è sbagliato affermare che così facendo il PD si trasforma in un mero corriere in grado di portare alla ribalta esponenti di altri partiti di centrosinistra, soffocando la spinta interna.
È tuttavia sbagliato ritenere le primarie uno strumento tramite cui SEL e IdV lanciano continue e progressive OPA sul PD, ancora più sbagliato se si guarda ai risultati delle amministrative del 2011 ed in particolar modo a Milano. Nel capoluogo lombardo il Partito Democratico ottenne un risultato che si può definire a dir poco strabiliante, e costituisce l'asse portante della forza di governo di Pisapia.
Seppure gli elettori PD hanno dato fiducia ad un candidato non espresso dalla dirigenza, non hanno per questo abbandonato il partito; anzi, sarebbe più corretto interpretare il risultato di Milano come un premio, un segno di affetto e fiducia verso una formazione in grado di accettare un candidato potenzialmente sgradito ma scelto dalla base e di sostenerlo adeguatamente durante la campagna elettorale.

Le critiche interne al PD e alcuni editoriali che oggi vedono in Genova una sorta di Caporetto democratica si limitano probabilmente alla pura questione numerica dell'espressione del sindaco; si dimenticano tuttavia che il programma realizzato da tale sindaco sarà comunque un programma compatibile con quello del PD; soprattutto, dimenticano che il consenso e il gradimento si misurano in numero di voti, non in numero di sindaci, e fino ad ora dove il PD ha accettato il verdetto delle primarie - per quanto sgradito - è stato poi premiato alle urne.
Quanto al problema di selezione dei candidati, il paradosso è che il PD vive come un problema ciò che ne è in realtà la soluzione: accettando il meccanismo delle primarie, il PD di fatto delega al proprio elettorato la scelta dei candidati, lasciando al partito il semplice compito di fare delle proposte e di accettare esponenti di altre formazioni o della società civile valutandone le affinità programmatiche.
Prendere atto che una persona di un altro partito - o non iscritta a partiti - viene considerata migliore di un nome espresso dal partito non deve essere considerato espressione di debolezza, di incapacità o peggio ancora di perdita di influenza e consenso. Al contrario, è al momento la migliore espressione in Italia di trasparenza, democrazia e coinvolgimento dell'elettorato.

Tanto rumore per - quasi - nulla.

sabato 11 febbraio 2012

Il PD e il sostegno a Monti

Il segretario del PD Pierluigi Bersani

Una delle peculiarità più interessanti di un governo di stampo tecnico come quello che guida attualmente il Paese è la discrepanza che la natura stessa dell'esecutivo introduce nella lettura dei sondaggi di gradimento del Presidente del Consiglio e della sua squadra rispetto a quelli relativi alle intenzioni di voto delle forze politiche.

In una situazione politica normale, infatti, il Governo è espressione di una maggioranza parlamentare eletta dalla popolazione, il Presidente del Consiglio - specie con la personalizzazione della politica della II Repubblica - è a sua volta il leader della coalizione vincente alle elezioni, e vi è quindi una cinghia di trasmissione diretta che lega il gradimento dell'esecutivo al sostegno elettorale ai partiti della maggioranza che lo sostiene.
Questo scenario non è più vero nella situazione attuale, in cui, pur in presenza di una coalizione di partiti a sostegno del Governo, i membi dell'esecutivo non sono espressione di tale coalizione.
Si apre dunque uno spazio tra le indicazioni di gradimento al governo e le intenzioni di voto ai partiti, che spesso non è di semplice interpretazione, ma che è necessario conoscere al meglio per capire quali potranno essere le evoluzioni del gradimento dei partiti in vista delle elezioni politiche del 2013.

I sondaggi di opinione, tanto quelli svolti dalle principali società di sondaggi, quanto quelli - spesso altrettanto professionali - condotti in rete da gruppi più o meno amatoriali, sono concordi nell'assegnare al premier Mario Monti un gradimento superiore alla maggioranza assoluta del campione, un valore sicuramente alto, specie in relazione alle durissime misure economiche messe in campo, e indice in ogni caso di un sostegno che travalica appieno i limiti delle coalizioni della II Repubblica.
Andando a capire da dove proviene tale consenso scorporandolo per area, si nota un sostegno pressoché totale da parte degli elettori di PD e Terzo Polo e comunque maggioritario da parte dei sostenitori di IdV e SEL. Al contrario l'esecutivo guidato da Mario Monti non è apprezzato dagli elettori di PdL e Lega, oltre che da quelli della Federazione della Sinistra e del MoVimento 5 Stelle.
Sarebbe possibile trarre da un simile dispiegamento dei valori di apprezzamento la conclusione che il Governo Monti è - almeno a livello di percezione - un esecutivo di centro / centrosinistra, ma sarebbe un ragionamento forse riduttivo e semplicistico, che non tiene conto del traumatico cambio di governo di novembre 2011 e della classica partigianeria politica che da sempre contraddistingue il popolo italiano: considerato il tenore delle misure intraprese dal Governo, certamente non sarebbe facile considerarlo un esecutivo di centrosinistra. Tra le leggi varate dal Governo vi sono misure di destra (pensioni, mercato del lavoro) e di sinistra (liberalizzazioni, IMU sulla seconda casa), ed entrambe le parti si aspettavano ulteriori misure che non sono arrivate. Quantificare l'impatto di una legge piuttosto che di un'altra non è semplice, ma il provvedimento a maggior impatto, fino a questo momento, è stato probabilmente quello sulle pensioni, una manovra tipicamente non di sinistra.
L'apprezzamento da parte degli elettori di centrosinistra, ed la contestuale disapprovazinoe da parte di quelli di centrodestra, deve essere letta in buona parte come un raffronto verso il precedente esecutivo più che come un giudizio legato unicamente all'operato dell'attuale.

Rispetto al consenso mostrato dagli elettori, sono tre le formazioni politiche schierate in linea con esso: PD e Terzo Polo tra le forze in sostegno, e la Lega Nord tra quelle in opposizione.
I sondaggi relativi alle intenzioni di voto paiono in effetti al momento premiare queste forze con incrementi o al più punteggi stabili, laddove le altre forze politiche appaiono in sofferenza. Se tuttavia a sinistra del PD vi sono spazi in abbondanza per far sì che IdV e SEL possano risentire in maniera marginale di una posizione parlamentare distonica rispetto ai desideri dell'elettorato, la situazione appare più critica per il PdL, schiacciato tra la Lega ed il Terzo Polo ed ormai ridotto ai valori della sola Forza Italia nel 2006.

La discrepanza tra apprezzamento del Governo e intenzioni di voto è particolarmente evidente proprio per i due partiti maggiori: il governo è orientato a destra, è sostenuto dal PdL ma non è apprezzato dall'elettorato di riferimento della formazione di Alfano; al contrario, è apprezzato dall'elettorato del PD e sostenuto dal partito di Bersani, malgrado non sia un governo di centrosinistra.
Queste contraddizioni evidenziano in realtà quanto non ci si possa permettere di archiviare l'esperienza berlusconiana, dal momento che ogni giudizio di approvazione viene dato in buona parte in relazione al periodo di governo del Cavaliere. La sensazione è acuita dal fatto che il Parlamento è sostanzialmente lo stesso del 2008; solo con le nuove elezioni politiche si potrà avere un vero segnale di cesura che permetta di tagliare radicalmente i rapporti con il passato.

I sondaggi relativi alle intenzioni di voto, che mostrano un centrosinistra - in edizione "foto di Vasto" - in forma smagliante rispetto ad un centrodestra in affanno devono quindi essere presi in considerazione solo in relazione all'attuale fase di governo tecnico, e non possono essere considerati validi più di tanto per capire quali potranno essere gli esiti delle elezioni politiche 2013, con un vero candidato di centrodestra ed uno di centrosinistra (oltre ad altri partecipanti espressione delle forze politiche) a confronto.
In particolare, è il Partito Democratico a non poter dormire sonni tranquilli. Per quanto la formazione di Bersani sia oggi premiata dai sondaggi, è pur vero che il PD guadagna consensi in punti percentuale - o per meglio dire non ne perde in termini di numero di voti - tramite l'appoggio ad un governo comunque esterno, ad un Presidente del Consiglio non espressione del partito o in ogni caso della coalizione.

Quanto è da considerare solida questa capitalizzazione di consenso, nel momento in cui inizierà una vera campagna elettorale, con un candidato espressione del centrosinistra e magari proprio del PD? Quanto volentieri la base del Partito Democratico, che tanta fiducia sta accordando a Monti, appoggerà un'espressione dell'establishment di partito?
L'esperienza del governo tecnico serve ancora una volta ai democratici per sopire i temi caldi che squassano il partito, primo tra tutti il forte deficit di leadership a sinistra che si protrae con ogni probabilità dai tempi di Berlinguer.
Ma la campagna elettorale è realmente alle porte, e Bersani non può indugiare: il segretario del PD ha il difficile compito di dover coniugare un appoggio a Monti in linea con i desideri della base e che comunque frutta una tenuta del consenso del partito con un'inevitabile necessità di dover comunque camminare sulle proprie gambe nel percorso verso le elezioni, mostrando di avere delle idee e di possedere la forza per sostenerle.

lunedì 6 febbraio 2012

Chi succederà a Giorgio Napolitano?

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Gli anni di governo di Silvio Berlusconi sono stati caratterizzati da una forte tensione per la modifica della Costituzione, in particolare per quanto riguarda l'assetto politico istituzionale del Paese e la giustizia; secondo i suoi oppositori si sarebbe trattato di veri e propri tentativi di scardinare l'architettura democratica del Paese per aprire la strada a forme di autoritarismo simili a quelle che oggi si possono trovare in un Paese controverso come l'Ungheria.
Proprio a causa di tali tentativi di intervento costituzionale sono stati avviati dei veri e propri scontri istituzionali che non hanno risparmiato nessuna autorità dello Stato: Parlamento, Governo, Magistratura e Corte Costituzionale, ma soprattutto la Presidenza della Repubblica. Il ruolo di garante della Costituzione assegnato al Presidente della Repubblica, se nell'ordinaria attività politica costituisce un vincolo di non intervento, è invece esaltato nel caso di modifiche alla Carta o in generale di leggi pur non andando a cambiarla ne alterano il significato e l'interpretazione. Scalfaro, Ciampi e Napolitano hanno combattuto delle vere e proprie guerre contro Berlusconi per salvaguardare l'assetto dello Stato, e mai come negli ultimi anni il ruolo del Presidente della Repubblica è stato sotto i riflettori dell'opinione pubblica.

Questo rende particolarmente significativo il fatto che nel 2013 scadrà il settennato di Giorgio Napolitano, complicando all'inverosimile la già complessa partita a scacchi delle alleanze in vista delle elezioni che formeranno la XVII Legislatura.
In realtà, la differenza non grandissima tra la durata del mandato del Presidente della Repubblica rende quasi ogni elezione politica la premessa dell'opzione sul Quirinale, tuttavia la scelta del successore di Napolitano avrà un valore simbolico altissimo per un Paese ancora in mezzo al guado del superamento delle logiche della II Repubblica e più in particolare del berlusconismo.

Sebbene partecipino all'elezione del Presidente della Repubblica anche cinquantotto delegati regionali che possono introdurre un certo margine di variabilità, sarà infatti la composizione del Parlamento che uscirà dalle prossime elezioni politiche a determinare chi sarà il prossimi inquilino del Quirinale.
Le variabili in campo sono attualmente moltissime, e dipendono dalle alleanze che si formeranno alle prossime elezioni politiche che a loro volta dipendono in maniera significativa dalla legge elettorale con cui si andrà a votare; tuttavia è già possibile, a poco più di un anno dall'evento, iniziare a formulare alcune ipotesi.

Il primo nome papabile è senza dubbio quello dell'attuale Presidente del Consiglio, Mario Monti. L'altissimo profilo istituzionale dimostrato nella gestione del Governo, in special modo nei rapporti con i partiti, lo rende un nome interessante per una buona fetta dell'agone politico, che spazia dal PdL a PD passando per il Terzo Polo. Un simile scenario, tuttavia, implicherebbe una sorta di Grande Coalizione in cui verrebbero sacrificate dal centrodestra e dal centrosinistra le ali più estreme degli schieramenti, rispettivamente la Lega da una parte e IdV e SEL dall'altra. Il vero vincitore di una simile operazione sarebbe naturalmente il Terzo Polo, mentre è facile individuare nel Partito Democratico il principale sconfitto: se infatti le connotazioni di Lega e PdL renderebbero difficile un passaggio automatico dell'elettorato dalla formazione di Alfano a quella di Bossi in caso di scarso gradimento della base di una simile alleanza specie al centrosud, a sinistra SEL si propone come reale alternativa a sinistra di un PD che si ritroverebbe drasticamente schiacciato e ridimensionato.

Nel caso di presentazione delle coalizioni ormai stratificatesi negli ultimi anni, ovvero un centrodestra formato da PdL e Lega, un centro con UdC, FLI e formazioni minori, ed un centrosinistra con PD, IdV e SEL gli ultimi sondaggi vedono un centrosinistra vittorioso senza problemi alla Camera e con discrete possibilità di realizzre una maggioranza anche al Senato. In questo caso non è impossibile un rientro in campo di Romano Prodi; la scelta sarebbe indubbiamente una prova di forza, dal momento che la figura di Prodi rievocherebbe le contrapposizioni della II Repubblica per di più in un momento in cui il Terzo Polo era saldamente parte del centrodestra; avrebbe tuttavia il pregio di essere molto gradita all'elettorato di centrosinistra, che in Prodi ebbe la propria principale bandiera per via delle due vittorie elettorali del 1996 e del 2006.

Al contrario, se il centrosinistra fosse maggioranza alla Camera ma non al Senato, e si fosse costretti a cercare un'alleanza con il Terzo Polo, il prossimo Presidente della Repubblica potrebbe essere una figura più moderata; il favorito in questo scenario è l'ex Presidente del Senato Franco Marini, ma se l'appoggio del Terzo Polo dovesse essere realmente determinante non è nemmeno da escludere l'ascesa al Quirinale di Pierferdinando Casini.

La vittoria del centrodestra alle elezioni al momento appare uno scenario poco probabile, eppure è impossibile dimenticare la straordinaria rimonta compiuta da Berlusconi nel 2006, che portò al pareggio alle urne e alla sostanziale ingovernabiità del Senato. Il PdL sicuramente attraversa una fase convulsa, i cui esiti appaiono incerti. Non è esclusa la frammentazione del partito in almeno due correnti, una centrista, che potrebbe riallacciare i rapporti con Fini e Casini, ed una oltranzista che al contrario si appoggerebbe alla Lega Nord. Non è tuttavia nemmeno escluso che queste due anime possano poi tuttavia pervenire ad un nuovo punto di incontro, con il risultato di ricreare un centrodestra delle dimensioni di quello del 2006. Pisanu o più probabilmente Letta potrebbero essere le espressioni per il Quirinale di una simile coalizione, ma non bisogna dimenticare Berlusconi.
Proprio il Cavaliere, dichiarando al Financial Times la propria volontà di non ricandidarsi al ruolo di Presidente del Consiglio, infatti, ha scatenato le prime voci che lo vorrebbero tener d'occhio la Presidenza della Repubblica. E Berlusconi è un nome che non deve mai essere sottovalutato.

Quel che è certo è che la partita è molto più aperta di quanto ad oggi appaia, e che la sua reale importanza non viene menzionata nell'informazione politica quotidiana. Anche se Berlusconi è stato sbalzato di sella, è difficile credere che il berlusconismo sia veramente scomparso dal Paese, né che il Cavaliere sia realmente finito come uomo politico. Al contrario, il 2013 sarà la sua scommessa più grande. Se gli riuscisse il colpo, di persona o tramite una persona di fiducia, di conquistare il Quirinale, avrebbe a disposizione un potere mai avuto fino ad ora, il controllo effettivo della Consulta ed il potere di cambiare realmente l'assetto istituzionale del Paese.

venerdì 3 febbraio 2012

Il PD tra responsabilità e immobilismo

Simbolo del Partito Democratico

Se c'è un mantra che il PD ha utilizzato negli ultimi anni della vita politica italiana, si è trattato certamente del tema della "responsabilità".

Un concetto che come un martello ha forgiato e plasmato la figura attuale del Partito Democratico, e che ora che la formazione di Bersani si trova a far parte di una per quanto anomala maggioranza di governo rischia di far esplodere molte contraddizioni interne al partito, presenti dalla sua nascita ma sempre sopite dal ruolo di partito di opposizione che fino ad ora ricopriva il PD.

L'importanza del concetto della responsabilità (Noi siamo un partito di governo temporaneamente all'opposizione, diceva Bersani fino a non molti mesi fa) è un fattore cruciale nella psicologia della dirigenza del PD, reduce dall'esperienza del Governo Prodi e in generale di matrice post-comunista e succube delle campagne mediatiche di un avversario formidabile come Silvio Berlusconi.
Una fascia consistente dell'elettorato considerato storicamente non ostile alla sinistra ha comunque sempre fatto molta fatica a dare il voto alle formazioni progressiste in quanto considerate incapaci di proporre un'alternativa di governo. Si tratta di un tema su cui Berlusconi, giocando anche sulla provenienza comunista dei suoi avversari, ha impostato spesso con successo le sue campagne elettorali; e si tratta di un tema su cui la sinistra italiana ha perso in effetti gran parte della sua credibilità con l'esperienza del Governo Prodi II, in cui si è arrivati agli incresciosi episodi dei Ministri in piazza a manifestare contro il governo di cui facevano parte.

A partire dalla campagna elettorale del 2008, il Partito Democratico ha giocato le proprie carte sull'identità del partito di governo, nel tentativo di riconquistare un elettorato in quel momento deluso verso i partiti della sinistra radicale a scegliere una formazione che potesse offrire maggiori garanzie di tenuta, ma soprattutto nel tentativo di dare di sé un'immagine rassicurante a quella determinante fascia di elettorato moderato le cui oscillazioni determinano poi la vittoria nelle competizioni elettorali del Paese.

Tuttavia, le declinazioni pratiche in cui tale atteggiamento si è manifestato appaiono tutt'altro che incoraggianti. Il primo biennio di vita del PD fu caratterizzato dal "maanchismo" veltroniano, che da lodevole tentativo di conciliare differenti istanze generò un totale immobilismo del partito su pressoché qualsiasi tema a causa dell'incapacità di trovare una reale sintesi di vedute. Dopo la parentesi di Franceschini, la gestione Bersani apparve maggiormente concreta ma non in grado di cancellare l'immagine di un partito farraginoso, incapace di prendere posizione e meschino nello schierarsi dove soffia il vento. Le polemiche legate alla posizione del Partito Democratico in occasione dei trionfali referendum del 2011 è forse l'esempio più chiaro di questo fenomeno. Infine, e si giunge al presente, l'ambiguo sostegno offerto al Governo Monti con la rinuncia di Bersani a correre delle elezioni vinte in partenza appare, sotto la maschera della responsabilità nazionale, al contrario proprio una fuga dalle responsabilità di governo che il PD aveva tanto sbandierato nei mesi precedenti.

Il problema di fondo del Partito Democratico, il peccato originale che la formazione si porta dietro sin dalla fusione di DS e DL, è l'incapacità di scegliersi un target e di veicolare il relativo messaggio.
Il Partito Democratico, nella suo autorichiamo alla responsabilità e nel - non troppo efficace - tentativo di presentarsi come una formazione in grado di sostenere la prova di Palazzo Chigi, ha preteso di porsi come interlocutore e riferimento per l'intero Paese.
Non deve quindi stupire che le insormontabili difficoltà nel conciliare punti di vista e istanze diametralmente opposti abbiano deprezzato e depotenziato l'offerta politica del partito; nel tentativo di non scontentare nessuno, il PD ha condannato sé stesso, almeno nei suoi primi anni di vita, all'inerzia politica.
Fatto forse ancora più grave, il PD ha rinunciato alla mission insita nella definizione stessa di partito, ovvero rappresentare una parte della popolazione e le sue richieste. In parte il problema deriva dalla nascita del tutto peculiare della formazione: trattandosi di una fusione dall'alto di due forze preesistenti e di antichissima estrazione, è mancato quello zoccolo duro ideologico che porta un movimento oltre quella soglia critica necessaria per trasformarlo in partito di rilevanza nazionale (si veda ad esempio la Lega Nord). Per di più, le due forze che hanno dato origine al PD erano rivali ai tempi della Prima Repubblica, e fondendosi hanno dovuto mettere da parte una fetta consistente del loro patrimonio ideologico fondativo, senza tuttavia sostituirlo con un'adeguata sintesi.
Mancando quindi la base ideologica, il PD non è stato in grado di seguire il naturale percorso evolutivo di un partito, ovvero la propugnazione e la difesa del suo corpus di idee in modo da renderlo maggioritario nel Paese; al contrario, il PD si è via via aperto a settori sempre più ampli della società (le candidature delle elezioni 2008 sono il più fulgido esempio del fatto) fino a scivolare nell'immobilismo.

Sebbene la gestione di Pierluigi Bersani abbia in parte mitigato questo scenario, a livello percettivo il Partito Democratico è ancora visto come una formazione molle e senza idee, né sarà facile modificare tale sensazione nell'attuale situazione di appoggio al Governo Monti.
Il Partito Democratico è una formazione giovane - sebbene politicamente parlando non lo siano i suoi esponenti di spicco - eppure questa non può essere una scusa per non avere una vera posizione politica.
Se il richiamo alla responsabilità porta all'inclusione di ogni istanza sociale e quindi all'immobilismo, è giunto il momento che il PD ponga dei confini, rinunci alla conquista di fasce elettorali incompatibili tra loro e si dia un'identità ed una collocazione politica precisa. Solo in quel momento potrà davvero definirsi un vero partito di governo.
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