mercoledì 28 dicembre 2011

Chi vuole tornare al voto?

Un momento delle elezioni politiche 2008

Dopo la luna di miele forse più breve della storia, nessuno, a quanto pare, ama più il Governo Monti.
La reazione, dopo una manovra economica fatta prevalentemente di entrate, percepita come l'ennesimo, ulteriore, prelievo forzoso a chi ha sempre pagato le tasse, con una riforma delle pensioni particolarmente amara, con un numero crescente di voci che vedono l'Italia comunque condannata al fallimento - previo risucchio di tutte le risorse disponibili - per volontà dei grandi gruppi della finanza mondiale, era forse scontata. Era lapalissiano che i partiti avrebbero iniziato a far risuonare i propri distinguo e i propri malumori verso il Governo, iniziando ad agitare i pugni e mostrare i muscoli per pretendere determinate riforme ed impedirne altre, e minacciando, qualora abbiano i numeri per farlo, le elezioni anticipate.
È tuttavia importante saper individuare, nelle dichiarazioni dei politici, quali indicano un chiaro ritorno alle urne e quali invece sono le frasi fatte scandite solo per tranquillizzare il proprio elettorato di riferimento, senza che vi siano vere mosse per staccare la spina al Governo Monti.

Il quadro di partenza è indubbiamente il cui prodest, ed in questo frangente vi sono tre fattori di cui tenere conto, uno politico e due elettorali.
L'elemento politico riguarda la collocazione, nei primi quattro mesi del 2012, di circa duecento miliardi di euro di titoli di stato sul mercato. Gli interessi a cui tali titoli saranno collocati sarà determinante nel definire la sostenibilità del nostro debito pubblico negli anni a venire, e la responsabilità politica di un'asta fallimentare - con gli ulteriori durissini tagli che ne seguirebbero - sarebbe troppa da sopportare per qualsiasi formazione politica. Lo scudo formato da un governo tecnico a cui scaricare le responsabilità maggiori è utile tanto alle forze che sostengono oggi Mario Monti quanto a quelle che lo avversano: per le prime, naturalmente, sono a disposizione gli appelli al bene comune e alla salvezza del Paese, a scelte condivise che non soddisfano appieno ma che era necessario sostenere in sede parlamentare; alle seconde, invece, fa semplicemente comodo il ruolo di opposizione per pontificare senza prendersi alcuna responsabilità di offrire un'alternativa o compiere scelte magari dolorose.
Il secondo tema, uno spauracchio all'orizzonte per molte forze politiche, è il referendum sulla legge elettorale, che - se considerato ammissibile dalla Corte Costituzionale - permetterà in caso di esito favorevole di abrogare la Legge 270/2005 varata dal Governo Berlusconi III per ripristinare la legge elettorale precedente, il cosiddetto Mattarellum (Legge 276/1993 e Legge 277/1993). Malgrado a parole tutte le forze politiche deprechino questo o quell'aspetto del Porcellum, è chiaro che le forze della ex-maggioranza di centrodestra sarebbero le più interessate a disinnescare quest'arma facendo cadere il Governo Monti prima dell'appuntamento referendario e andare a votare con l'attuale legge elettorale, specialmente dopo che l'esperienza referendaria del 2011 ha dimostrato come il raggiungimento del quorum non sia un obiettivo utopico. Per il Partito Democratico la scelta migliore sarebbe invece una nuova legge elettorale promulgata dal Parlamento, non ritrovandosi né nel Porcellum né nel Mattarellum, ma è chiaro che se si dovesse arrivare al referendum questo non potrebbe essere un motivo valido per il partito di Bersani per interrompere l'esperienza di Governo. Ancora più ostili all'attuale legge elettorale sono IdV e Terzo Polo, il primo per motivi ideologici, il secondo perché sarebbe sicuramente favorito da una qualsiasi legge che non preveda unaa definizione ferrea delle coalizioni prima del voto.
Il terzo e ultimo tema riguarda naturalmente le speranze di vittoria e governabilità del Paese in caso di elezioni anticipate: come riporta Termometro Politico nella sua analisi settimanale della media dei principali sondaggi, ad oggi lo scenario elettorale vedrebbe un centrosinistra avanti di oltre il 7% rispetto al centrodestra, con un Terzo Polo ed un MoVimento 5 Stelle piuttosto tonici sia alla Camera che al Senato. Se si andasse al voto l'Italia sarebbe di fatto ingovernabile in quanto al Senato non si riuscirebbe a creare una vera maggioranza, ma l'aspetto principale per valutare la propensione dei partiti alle urne riguarda naturalmente le prestazioni ottenute dalla lista e conseguentemente il numero di parlamentari conquistati. Rispetto al 2008 appare evidente l'arretramento della coalizione PdL-Lega, tanto in termini di consenso quanto - soprattutto - di seggi conquistati grazie ai premi di maggioranza: ragionando in questi termini, quindi, sarebbero soprattutto le forze di centrosinistra e del Terzo Polo ad avere desiderio di un rapido ritorno alle urne.

la situazione appare quindi tremendamente complessa: ogni partito potrebbe ricavare vantaggi sia dall'opzione di un voto primaverile sia da un sostegno di più lunga durata al Governo Monti, ed è quindi chiaro che l'azione dell'esecutivo non potrà che avere effetti rilevanti sul sostegno che le formazioni politiche gli garantiranno nei prossimi mesi.
Secondo i sondaggi più recenti, sono soprattutto gli elettori del centrosinistra e del Terzo Polo ad apprezzare l'operato di Monti; tale dato è tuttavia inquinato dal paragone, fin troppo vivo, con l'odiato Governo Berlusconi: solo nei prossimi mesi il dato tenderà a fornire risultati più veritieri, basati più sulle azioni del governo che sul mero sollievo di non avere più il Cavaliere al potere. La manovra economica di dicembre ha grandemente deluso le aspettative del popolo di centrosinistra, in particolar modo per quanto riguarda il capitolo pensioni e l'impatto dell'IMU sulla prima casa; le varie tasse sul lusso, gli sgravi alle imprese e le misure anti-evasione, pur di indubbio valore, non sono stati percepiti come un'adeguata contropartita, e hanno indotto l'idea di una manovra orientata a destra. Tale visione potrebbe essere corretta nell'immediato futuro se alcune promesse del governo, in particolar modo un concorso nel mondo della scuola (a tredici anni dall'ultimo) e le tanto agognate liberalizzazioni, si concretizzassero in provvedimenti reali.
Il discorso è differente per gli elettori del PdL: il consenso verso il Governo è molto basso, e questo potrebbe provocare emorragie di voti in un partito già comunque provato dalla caduta del Governo Berlusconi IV e dall'incrinarsi dell'alleanza con la Lega Nord. Specularmente a quanto avviene da sinistra, anche a destra la manovra economica è stata percepita come una grossa delusione, naturalmente dando molto maggior peso alle forme di patrimoniale e all'IMU che al capitolo pensioni: chiaramente ogni segmento sociale tende a pesare in maniera maggiore i provvedimenti che ne toccano direttamente gli interessi. Il futuro, tuttavia, pare essere meno generoso con il PdL rispetto al PD: le prossime manovre previste dal Governo Monti in tema di liberalizzazioni infatti andrebbero a scalfire nettamente molti privilegi di ceti sociali storicamente amici del centrodestra, aumentando i mal di pancia del partito berlusconiano. Le recenti uscite di Berlusconi stesso possono senza alcun dubbio essere interpretate anche nell'ottica di offrire, con una specie di gioco di prestigio, un'immagine di un PdL di lotta e di governo, in cui il segretario Alfano sostiene Monti ed il padre-padrone Berlusconi, formalmente senza incarichi, gioca a fare l'opposizione.
La Lega Nord e, successivamente, l'Italia dei Valori, hanno invece scelto di porsi all'opposizione del Governo, la prima in maniera dura, la seconda offrendo disponibilità a valutare i singoli provvedimenti prima di concedere o meno il proprio voto. In entrambi i casi si tratta di una scelta dettata dalle esigenze di un elettorato profondamente avverso al "governo delle banche", come definiscono l'esecutivo di Monti. In realtà i due partiti risultano numericamente ininfluenti per la tenuta del Governo, quindi hanno facile gioco ad attaccare le misure più o meno depressive e recessive intraprese dall'esecutivo senza doversi impegnare, essendo garantito il passaggio delle leggi, a costruire reali alternative.

Nel caos che regna nella politica italiana dalle dimissioni di Berlusconi, emerge quindi con prepotenza il vero elemento forte: si tratta proprio del Governo. Malgrado i ricatti e i veti incrociati che possono porre i partiti, nessuno, nell'agone politico, pare avere la forza o l'interesse di assumersi la responsabilità di scrivere la parola fine su questo esecutivo, almeno non in tempi brevi. Monti ha il diritto e il dovere di sfidare i partiti sul proprio campo qualora riscontri - e i casi dei costi della politica sono tante, lampanti, occasioni perdute in tal senso - corporativismi volti a mantenere questo o quel privilegio. Solo se saprà farlo, mettendo i partiti dinanzi alle proprie responsabilità, sarà in grado di rinnovare non solo il Paese, ma persino la sua classe politica. E non sarebbe un risultato da poco.

venerdì 23 dicembre 2011

Dati AGCom novembre 2011

Logo dell'AGCom

Il mese di novembre costituisce il passaggio tra il Governo Berlusconi IV ed il Governo Monti, e per questa ragione anche l'informazione televisiva mostra una situazione piuttosto anomala, si potrebbe quasi di dire di transizione, rispetto ai trend consolidati dei mesi precedenti. Sono da poco disponibili i dati AGCom relativi a novembre 2011, e la loro analisi consente di focalizzare in maniera puntuale in che modo il mondo dell'informazione ha reagito alla caduta del Cavaliere e all'insediamento del nuovo esecutivo.

Dal momento che per buona parte del mese è ancora stato in carica Berlusconi, e anche per garantire continuità le analisi dei mesi precedenti, sono state mantenute per il mese di novembre le classificazioni già in uso, sia in termini di maggioranza/opposizione al governo, sia nella collocazione politica in termini di destra/sinistra.

Come era lecito attendersi, l'informazione politica in televisione stabilisce un nuovo record in termini di ore assolute, arrivando a quota 213, dodici in più del precedente picco stabilito nel mese di febbraio. Sicuramente si tratta di un valore adeguato alla gravità del momento: l'impellente crisi del debito pubblico e le dimissioni del Presidente del Consiglio non potevano che scatenare una vera e propria inondazione di servizi nei telegiornali.

Dati AGCom novembre 2011

La tabella dei dati grezzi evidenzia un nettissimo sbilanciamento verso destra del quadro comunicativo dei telegiornali; se in parte questo fenomeno poteva apparire scontato, dal momento che era di centrodestra il governo dimissionario, dall'altro questo fenomeno permette di comprendere in maniera esaustiva anche la direzione da cui è stata vista e analizzata la crisi dell'esecutivo.
Rispetto infatti a cifre istituzionali proporzionalmente invariate rispetto al mese precedente, sono evidenti gli incrementi dei partiti dell'ex maggioranza parlamentare, laddove invece l'opposizione vive un forte momento di contrazione mediativa.

Dati AGCom novembre 2011 aggregati per
Istituzioni - Maggioranza - Opposizione

Dati AGCom 2011 aggregati per
Istituzioni - Maggioranza - Opposizione

L'istogramma che evidenzia la suddivisione temporale tra le aree di maggioranza, opposizione e istituzioni evidenzia, come già appariva dai dati gressi, una netta contrazione dell'opposizione puramente a favore della maggioranza.
Le istituzioni, infatti, si mantengono su un valore pressoché costante rispetto al mese precedente, anche se al loro interno il Presidente del Consiglio assurge quasi a figura egemonica con il 20% dell'intero tempo mediatico mensile - da un lato gli ultimi colpi di Berlusconi, dall'altro l'interess mediatico per il subentrante Monti; in netta ascesa il PdL, e anche la Lega evidenzia un trend di salita rispetto al mese di ottobre.
Nell'opposizione, invece, appaiono in calo PD e UdC, le forze che hanno scelto di sostenere apertamente Monti, mentre IdV e SEL appaiono in salita. In controtendenza FLI, giustificata tuttavia dal momento di popolarità alla caduta di Berlusconi a causa della querelle personale tra il Cavaliere e Gianfranco Fini.

A livello di testate giornalistiche, le istituzioni sono state particolarmente rappresentate su Rainews24, la maggioranza ha trovato massima sponda nel TG4 mentre l'opposizione ha avuto massimo spazio su MTVFlash.

Dati AGCom novembre 2011 aggregati per
area politico-culturale

Dati AGCom 2011 aggregati per
area politico-culturale

Dallo spaccato per area politica emerge il dato eclatante di un centrosinistra ai minimi annuali, sotto la soglia psicologica del 30%.
Certamente, nelle concitate fasi della caccia al voto per determinare la sopravvivenza o meno del governo Berlusconi, non deve stupire l'elevatissima quota raggiunta dai cosiddeti cani sciolti, dai parlamentari del Gruppo Misto, dai non allineati il cui voto poteva o meno fare la differenza al momento del voto decisivo.
Tuttavia, nel confronto con il tempo precedente, si nota come il tempo sia stato in qualche modo sottratto a quella che pareva una quota consolidata nel centrosinistra, lasciando il centrodestra ai livelli di ottobre.
Al netto di questo importante travaso, tuttavia, non si notano altre variazioni di rilievo.

Il centrodestra trova il maggiore spazio sul TG4, mentre il centrosinistra ottiene sul TG4 le sue migliori performance. Ancora una volta il TG2 è la forza più generosa con il Terzo Polo, mentre la Lega Nord ed in generale le forze di destra trovano maggiore espressione su Rainews24.

Dati AGCom 2011 aggregati per mese

Dal dettaglio delle singole entità del mondo della politica si possono cogliere appieno quei movimenti già evidenziati dai dati aggregati: il protagonismo mediatico del Presidente del Consiglio a discapito pressoché di ogni altra forza, la risalita del PdL, e il forte calo del Partito Democratico, ad uno dei livelli più bassi dell'anno.

Dal punto di vista dell'aderenza alla par condicio vengono mantenuti gli stessi andamenti del mese precedente, con una prima fascia di livello formata dai telegiornali Telecom, Rainews e TG3, ed una seconda composta dai telegionarli Mediaset e dalle restanti testate della RAI.

Come ricordato, novembre 2011 è un mese puramente di transizione, le cui caratteristiche lo rendono di fatto imparagonabile agli altri mesi dell'anno: la caduta di un governo e l'insedimento di un altro sono eventi effettivamente fuori scala rispetto alla normale vota politica del Paese: sarà quindi il mese di dicembre a fornire il primo reale riscontro dei nuovi equilibri mediatici italiani.

martedì 20 dicembre 2011

Un'arma in più contro l'evasione

Pattuglia della Guardia di Finanza

Il 1° gennaio 2012 sarà forse una data da segnare sul calendario per la lotta all'evasione fiscale. Secondo quanto previsto dal governo, infatti, scomparirà il segreto bancario, permettendo al fisco di indagare sui movimenti e le transazioni bancarie superiori a 1.000 € - la stessa soglia prevista per il divieto delle transazioni in contanti - e di incrociarli con le altre informazioni già oggi a disposizione degli agenti del fisco.

L'infrastruttura informatica che consentirà simili analisi incrociate si chiama "Servizi per i contribuenti", abbreviato in Serpico, quasi a ricordare l'incorruttibile poliziotto dell'omonimo film di Lumet del 1973.
Serpico è un insieme di circa 2.000 server posizionati a Roma - assieme a diversi server specchio in Abruzzo utilizzati per le copie di back-up - caratterizzato da tre punti di forza che lo rendono il paladino della caccia all'evasore.
In primo luogo la potenza di calcolo: Serpico è in grado di elaborare oltre 22.200 operazioni al secondo, una potenza di fuoco immane perfettamente sufficiente per esaminare le decine - se non centinaia - di milioni di dati che annualmente transitano attraverso i suoi circuiti.
Secondariamente, naturalmente, l'accesso ai dati. Serpico è interconnesso con le banche dati, tra le altre, del catasto, del demanio, degli istituti previdenziali e dell'Inail, delle società di servizi urbani come luce e gas, degli istituti di assicurazione, riuscendo sostanzialmente a percepire tutti i movimenti per cui sia stato utilizzato il codice fiscale o la partita IVA. Da gennaio anche il circuito bancario sarà a disposizione di Serpico per i controlli generali, e non solo sui cittadini per i quali era già in corso un accertamento.
Infine, e qui entra in gioco il fattore umano, una serie di algoritmi consente a Serpico di riconoscere le situazioni anomale e segnalarle: un'efficace lotta all'evasione fiscale, infatti, passa anche e soprattutto dall'individuare ed escludere dal controllo i falsi positivi, nel costruire algoritmi intelligenti che consentano di puntare direttamente gli evasori fiscali facendo risparmiare allo Stato tempo e risorse. Quindi, anche se saranno processati tutti i dati, agli ispettori del fisco verranno segnalati solo i casi - potenzialmente - anomali, mantenendo quindi la riservatezza sui dati dei contribuenti onesti.

In realtà Serpico è già operativo da cinque anni, e vanta nella sua carriera alcuni discreti successi: 350.000 evasori totali smascherati dal 2006, un progressivo incremento della quota recuperata dallo Stato da 5 a 11 miliardi di euro - sebbene chiaramente la quota incassata dall'erario arriva dopo un contenzioso che sfasa leggermente i tempi di riferimento - e, elemento forse ancora più importante, un incremento della percentuale di successo passato dal 16% al 40%.
Si tratta dunque di un sistema consolidato, nei cui poteri già ricadevano diversi stereotipi dell'evasione fiscale: ad esempio, incrociando i dati della motorizzazione e le dichiarazioni dei redditi, Serpico già oggi è in grado di individuare i proprietari di auto di grossa cilindrata con un reddito al di sotto della soglia di povertà.

Cosa dovrebbe dunque cambiare con l'anno nuovo? Incrociando i dati bancari, da un lato viene per la prima volta preso in considerazione il patrimonio dei conti correnti e quindi vengono monitorate anche quantità di spese anomale rispetto al reddito che tuttavia non comportano l'acquisto di beni già tenuti sotto controllo; dall'altro lato il mondo finanziario entra prepotentemente sotto la lente d'ingrandimento, dal momento che le informazioni sull'acquisto di titoli, quote di fondi e altri stumenti finanziari saranno dall'anno prossimo sotto controllo.
Il cambio di paradigma è evidente: prima i dati bancari potevano essere usati solo per approfondire situazioni già sospette, ora costituiscono anch'esse parte del processo che porta ad identificare come sospetta la posizione di un contribuente. Un'arma in più di indubbia efficacia.
Dovrebbero restare fuori dai circuiti di Serpico, a causa dei mancati accordi internazionali con certi paradisi fiscali, gli spostamenti di capitali verso tali stati, ma anche in questo caso le variazioni dei conti correnti potranno fornire comunque informazioni utili per l'Agenzia delle Entrate.

Serpico, senza ombra di dubbio, rappresenta un attacco frontale contro l'evasione, un attacco di forza bruta, caratterizzato da un potente sistema centralizzato in grado di macinare dati su dati per individuare le illegalità. Il sistema sarà quindi in grado di migliorare il sistema di individuazione degli evasori - naturalmente ad ogni mossa del fisco è lecito attendersi una contromossa delle strategie di evasione fiscale, e bisognerà capire se con il controllo dei dati bancari si riuscirà a far avanzare realmente il fronte della legalità anche tenendo conto delle potenziali repliche - e sfrutta semplicemente la paura del controllo e delle sanzioni, nettamente inasprire, per fungere da deterrente per le evasioni future.
Per usare la terminologia di Luttwak, il fisco tenta in questo modo di esercitare un presidio puramente territoriale, mostrandosi unicamente come autorità giudicante; nelle disposizioni di Monti, almeno per ora, non sono infatti stati presi provvedimenti per favorire un controllo proattivo dell'evasione fiscale, strumenti per rendere economicamente convieniente al cittadino il comportamento virtuoso dei suoi clienti e fornitori di modo che egli stesso vestisse i panni di un dissuasore fiscale.
Un presidio di questo genere, egemonico e non territoriale, avrebbe forse richiesto maggiori risorse economiche, ma forse sarebbe stato in grado, a lungo termine, di modificare con maggiore incisività la mentalità del Paese spingendolo verso comportamenti più virtuosi.

Sicuramente non si può però parlare di occasione sprecata, il bicchiere è decisamente più pieno che vuoto: rispetto alla legislazione precedente sono stati fatti dei grandi passi in avanti, e senza alcun dubbio l'apertura dei dati bancari porterà frutti in termini di recupero delle somme evase; affiancare a questa sorta di Grande Fratello ulteriori strumenti per rendere economicamente sconveniente e socialmente immorale l'evasione fiscale saranno - auspicabilmente - i prossimi passi di questa guerra infinita.

venerdì 16 dicembre 2011

Monti apre alla tobin tax

Il Premio Nobel James Tobin

Se la manovra economica prodotta dal Governo Monti si può considerare, almeno per svariati aspetti comunque piuttosto rilevanti, una prosecuzione della linea politica del precedente governo di centrodestra, un forte elemento di discontinuità evidenziato dal nuovo Presidente del Consiglio ma forse passato troppo inosservato riguarda la posizione del Paese vero l'introduzione della tassazione sulle transazioni finanziarie che prevedono cambi di valuta, in gergo la tobin tax.

La tassa viene così chiamata in onore del Premio Nobel per l'economia James Tobin che la propose nelle sue Janeway Lectures a Princeton nel 1972, poco dopo la dissoluzione del patto di Bretton Woods per via della decisione di Nixon di abbandonare la parità aurea del dollaro americano. Venendo a mancare quindi l'aggancio delle singole valute - a meno di un piccolo intervallo di oscillazione - all'oro, il sistema collassò fino a trovare un nuovo equilibrio utilizzando il dollaro americano come valuta di riferimento, ma senza più legare ad esso tutte le altre valute in maniera fissa, e aprendo così la strada alle speculazioni valutarie.
James Tobin intese la tassa sulle transazioni intervalutarie come un tentativo di stabilizzare le oscillazioni a breve termine sulle diverse divise, e al tempo stesso offrire ai Paesi possessori di valute deboli un'entrata erariale sufficiente a costituire un'alternativa, per pilotare l'economia nazionale, alla svalutazione della moneta.

Nel corso degli anni tutti i tentativi di imporre la tobin tax nel mondo sono terminati con un fallimento.
La prima nazione che provò ad applicare la tobin tax fu la Svezia socialdemocratica di Olof Palme, che introdusse un'aliquota dello 0,5% sull'acquisto e sulla vendita di titoli azionari e stock options (di modo che un completo giro di compravendita avesse una tassazione dell'1%), tassa che fu poi raddoppiata nel 1986. Nel 1989 venne affiancata un'ulteriore imposta dello 0,002% sui titoli di stato a tre mesi, e dello 0,003% per durate maggiori. L'esperienza fu catastrofica: l'intervento ebbe effetti estremamenti depressivi per i mercati finanziari svedesi, con gli scambi che entrarono in stagnazione; l'introduzione dell'aliquota sui titoli di stato ne fece crollare il mercato di oltre l'80%.
Quando la tassa venne rimossa, tra il 1991 ed il 1992, gli scambi sul mercato svedese tornarono in fretta ai livelli della prima metà degli anni '80 e iniziarono un periodo di crescita che perdurò per tutto il decennio.
Successivamente la tobin tax arrivò ad un soffio dall'essere approvata in Francia tra il 2001 ed il 2002: l'assemblea approvò la proposta, che però venne poi bocciata dal Senato. Nel 2004 il Belgio approvò una norma che avrebbe automaticamente fatto entrare in vigore la tassa se questa fosse stata approvata a livello globale.
Proprio a tale proposito venne persino tentato nel 2000 di destinare i proventi di una tobin tax su scala mondiale alle Nazioni Unite, tramite una risoluzione che impegni i Paesi membri ad avviare le procedure legislative entro il 2015. Ad oggi la proposta è ancora in alto mare, principalmente per l'opposizione degli Stati Uniti.
Ad oggi l'unica forma di tobin tax presente nel mondo riguarda l'esperienza sovranazionale della Banca del Sud, varata nel 2007 per volontà del venezuelano Chavez e dell'argentino Kirchner.

Il significato dell'esperienza svedese, come d'altra parte risulta ovvio anche a livello logico, è che una tobin tax di dimensione locale è una misura puramente depressiva ed emarginante, in quanto non fa che dirottare investitori e speculatori su altre piazze finanziarie più favorevoli.
Questo ha tuttavia generato un progressivo gioco allo scaricabarile, in cui i diversi Paesi ed i diversi governi si mostravano tutti favorevoli ad una tobin tax globale senza che tuttavia nessuno ardisse fare il primo passo nelle sedi nazionali e internazionali. Il Governo Italiano di matrice berlusconiana si era sempre scagliato contro la tobin tax, vuoi in via soft come il Ministro dell'Economia Tremonti, vuoi in termini più coloriti come il Presidente del Consiglio Berlusconi, che non esitò a mettersi di traverso alla UE quando questa la propose e definire ridicola la proposta, come riportarono tra gli altri La Repubblica ed Il Corriere della Sera.
Nel mondo i principali oppositori alla tobin tax sono USA, Cina e Giappone; nell'Unione Europea, di per sé più possibilista e al cui interno diverse timide proposte sono state tentate nel corso degli anni, pesa in maniera sostanziale il veto dei Paesi che ospitano le principali piazze finanziarie, Regno Unito e Paesi Bassi. In realtà sotto il governo Brown da Londra erano arrivati diversi segnali di apertura alla tassa sulle transazioni finanziarie, al punto che lo stesso Parlamento Europeo ha votato una risoluzione in cui veniva richiesta l'introduzione di una tobin tax a livello globale o quantomeno europeo. Il ragionamento alla base di una simile proposta è stata la scommessa che una sufficiente massa critica di Stati e di piazze finanziarie potesse essere sufficiente a rendere operativa la tobin tax senza condannare all'emarginazione quegli stessi Paesi in favore di altri mercati più liberi da imposte.
Il passaggio di governo dai laburisti ai conservatori del 2010 ha riportato il dibattito in fase di stallo.

Nelle ultime settimane sono tuttavia maturati due eventi che possono costituire un vero punto di svolta nel processo di applicazione di una tobin tax a livello europeo. Il passaggio di consegne da Berlusconi a Monti - allievo dello stesso Tobin a Yale - ha portato Roma ad allinearsi a quel gruppo di Stati capitanati dalla Germania che vogliono l'approvazione della tobin tax. Tuttavia Monti, alla ricerca di alleanze politiche per contrastare l'asse Parigi-Berlino in seno alla UE e che nutriva speranze di un aggancio con Londra, forse non si sarebbe mai esposto esplicitamente in tal senso se il Regno Unito, al vertice europeo dell'8 e 9 dicembre, non avessi scelto di non aderire all'accordo sulla fiscalità comune europea, isolandosi così dal resto della UE.
È chiaro, l'isolamento della Gran Bretagna è più apparente che reale: Londra conserva tutti i suoi poteri in seno alle istituzioni europee, e può essere in grado di bloccare iniziative a livello europeo tramite il diritto di veto o raggranellando una minoranza di stati sufficiente a impedire il formarsi di una maggioranza qualificata. Ciò che tuttavia è emerso dal summit di dicembre è la volontà politica di creare un'Europa multilivello e a geometria variabile, in cui sottoinsiemi degli Stati membri possono accordarsi tra di loro e prendere iniziative anche in ambito legislativo senza dover sottostare ai veti dei Paesi che hanno deciso di restare fuori da un determinato accordo. Questa visione è naturalmente ancora in stato embrionale e si scontra con una realtà così interconnessa da necessitare di serie valutazioni prima di poter essere tradotta in realtà - ad esempio prendere decisioni di stampo economico senza la Gran Bretagna che è il secondo azionista della BCE appare quasi un controsenso - tuttavia lascia intendere come l'attuazione della tobin tax europa non sia mai stato un obiettivo così alla portata della UE.
La massa critica di Stati coinvolti, secondo le intenzioni dei promotori, sarebbe sufficiente ad evitare la marginalizzazione della UE nei confronti, ad esempio, di altre piazze non tassate come New York o Londra nel caso il Regno Unito restasse al di fuori da un simile accordo.

Considerata quindi la sostanziale equità della tassa, che va a toccare tipologie di transazioni finanziarie legate a doppio filo con la speculazione, ma tenuto conto della sua dimensione necessariamente sovranazionale, quali potranno essere gli eventuali effetti sulla popolazione, ad esempio, dell'Italia?
L'utilizzo effettivo delle risorse dipendebbe naturalmente dall'ente destinatario dell'imposta: nel caso di una redistribuzione agli Stati membri si tratterebbe di un'entrata erariale al pari delle altre, in caso di trattenuta della UE gli importi potrebbero essere utilizzati per finanziare gli strumenti di controllo e salvaguardia come i vari fondi di garanzia sui debiti sovrani, essere utilizzati per i fondi allo sviluppo ed una miriade di altre iniziative comunitarie.
Vi sono tuttavia alcuni vantaggi indotti, dovuti alla semplice esistenza della tobin tax e di cui come tali beneficerebbe l'intera area euro in maniera indipendente dal gettito raccolto: scoraggiando la speculazione a breve termine, l'euro si ritroverebbe ad essere più stabile e protetto dagli attacchi del mondo della finanza, rendendo la tassa sulle transazioni finanziarie addirittura uno strumento di salvaguardia della stabilità dei Paesi.
Secondariamente, colpendo le transazioni intervalutarie, la tobin tax spingerebbe le aree monetarie a fondersi e ingrandirsi, diminuendo il numero delle divise in circolazione e arrivando a creare un sistema finanziario maggiormente semplificato e stabile e quindi più difficilmente attaccabile dalla speculazione.

Una mera speranza? Sarà principamente il prossimo vertice europeo, che si terrà nel mese di marzo, a svelarlo.

lunedì 12 dicembre 2011

Speranze tradite

La protesta dei sindacati del 12/12/2011 a Roma

Se avessi avuto più tempo, almeno sei mesi, per mettere mano anche all'evasione, avrei fatto una cosa più equa.

Con queste parole il Presidente del Consiglio Mario Monti ha risposto alle critiche di chi ritiene la nuova manovra economica poco equa, sbilanciata sul lato delle entrate, incapace di dare quel necessario cambio di rotta che, dopo le dimissioni di Silvio Berlusconi, gli Italiani aspettavano con ansia e speranza.

Come già dettagliato in precedenza, il cosiddetto decreto Salva-Italia è estremamente complesso, ma se si guardano i saldi della manovra, si nota come l'intero provvedimento si riduca a due, forse tre, interventi: IMU, pensioni, e in misura minore l'incremento delle accise sulla benzina.

Se infatti è vero che la nuova IMU disegna una situazione strutturalmente simile all'ICI lasciata dal Governo Prodi nel 2008, il sistema di rivalutazioni delle rendite catastali, le aliquote fissate e l'importo detraibile definito dalla manovra la rendono molto più pesante dal punto di vista economico.
Sicuramente vengono colpite le seconde case: ad esempio, una seconda casa con valore catastale non rivalutato di 140 € (come può essere un monolocale in luogo turistico) passa da 112 € a 180 € annui; una seconda casa con valore catastale di 450 € (il tipico appartamento ereditato da genitori o nonni) schizza da 360 € a quasi 580 €. E tuttavia la stangata arriva anche sulle prime case: un appartamento con valore catastale di 350 € passa dall'esenzione totale a 35 €: la nuova legge fissa infatti intorno a 297 € di rendita catastale non rivalutata la soglia oltre la quale l'IMU inizia a farsi sentire anche sulla prima casa.
I calcoli sono stati fatti con aliquote medie: nel caso - probabile - in cui i Comuni decidessero di avvalersi dell'aliquota massima l'IMU nei tre casi segnalati passerebbe rispettivamente a 250 €, 800 € e 150 €.
La nuova IMU è la prima voce di entrata della nuova finanziaria.

Passando alle pensioni, il tema economico è strutturato su tre punti principali: l'aumento delle aliquote previdenziali dei lavoratori autonomi, il passaggio al contributivo e l'innalzamento dell'età pensionabile. Anche se i punti in cui il cittadino versa soldi allo Stato sono i primi due, il tema doloroso riguarda soprattutto la terza voce dell'elenco. A regime la riforma comporterà un incremento dell'età media di pensionamento di circa quattro anni, ma è estremamente significativo il caso dei lavoratori nati nel 1952, per i quali - a meno di un mese dalla maturazione del requisito di età previsto dallo scalino di Prodi - si prefigura di colpo uno slittamento dell'età pensionabile dal 2013 al 2018.

L'incremento delle accise, infine, ha portato i prezzi dei carburanti a dei veri e propri record probabilmente a livello mondiale, con la benzina che si sta assestando intorno agli 1,7 € al litro. Considerando che all'ingresso della moneta unica, nel 2002, il prezzo si aggirava intorno all'euro al litro, in un decennio si è avuto un incremento medio di circa il 6% annuo, un valore assolutamente esorbitante.
Il peso di un simile, folle, incremento è tanto maggiore se si tiene conto del fatto che ormai si tratta di un bene di prima necessità per la vita quotidiana e degli impatti a catena sui prezzi di tutti i beni che, nel loro ciclo produttivo e logistico, richiedono una fase di trasporto.

Dinanzi a tutto questo le tre tasse sui beni di lusso o l'imposta sui capitali scudati impallidiscono in termini di apporto finanziario, non arrivando a due miliardi complessivi di introiti per lo Stato.
La moanovra è molto altro: vi sono misure antievasione come la tracciatura dei capitali o l'obbligo di inserimento del canone TV in dichiarazione dei redditi, ma certamente non sono lenitivi sufficienti per chi si ritroverà stangate da un migliaio di euro annui o dovrà restare al lavoro per cinque anni in più.

La manovra doveva essere dura e così è stato. È impossibile fare a Monti una colpa di questo, il premier ha ereditato una situazione oggettivamente molto complessa e problematica e ha avuto il dovere di agire con poco tempo a disposizione. Monti è stato in grado di delineare molto bene la situazione, quando ha spiegato che nelle casse dello Stato vi è liquidità sufficiente per pagare gli stipendi fino a febbraio, a maggior vergogna di coloro che per anni hanno nascosto la crisi sotto il tappeto, fingendo che non esistesse o non ci riguardasse.
Che la manovra fosse poi orientata a destra si sapeva: le personalità del Governo e la composizione del Parlamento escludevano possibili alternative.
Vi sono tuttavia atti di mancata equità o vero e proprio abuso che di fatto screditano l'opera del governo e ne gettano ombre sull'operato. La manovra di Mario Monti si presta infatti a una serie di critiche, ben delineate e argomentate, che non possono essere respinte con la semplice scusa della mancanza di tempo.

Il primo tema riguarda naturalmente l'IMU alla Chiesa. Il Presidente del Consiglio ha affermato di non aver affrontato l'argomento. Perché? Di quali approfondimenti si necessitava che non servivano per le normali unità abitative? Quali considerazioni erano necessarie per chiedere sacrifici alla Chiesa Cattolica che invece non servivano per chiederli ai comuni cittadini?
Sempre in tema di IMU, sondando le rivalutazioni catastali è impossibile non rendersi conto di evidenti disparità di trattamento: per quale reagione i beni su cui già oggi la Chiesa paga l'ICI non hanno subito alcuna rivalutazione? E per quale ragione la rivalutazione degli estimi sui beni di banche e assicurazioni, sugli alberghi e sui porti, è nettamente inferiore a quella delle abitazioni private? Quali ragionamenti hanno portato il Governo a chiedere più sacrifici ai cittadini comuni che alle banche?
Ma è sui costi della politica che si concentrano le principali critiche al Governo: la polemica sulle riduzioni dei compensi ai parlamentari, comma uscito prontamente dalla blindatissima manovra dell'esecutivo in quanto lesivo della dignità del Parlamento, è stata accolta dall'opinione pubblica con incredulità prima ancora che con indignazione. Una scena surreale, che lascerà altre ferite nel rapporto tra gli Italiani e la politica. Se è vero che i protagonisti di questa deprecabile sceneggiata sono i parlamentari più che i membri del Governo, la linea permissiva del Presidente del Consiglio non è passata inosservata.
Altro tema dolente sono le province: Monti aveva fatto un piccolo passo verso la loro eliminazione, ma improvvisamente ecco spuntare un codicillo che ne regola l'effettiva riforma ad una legge successiva.
Da più parti è stato detto che i costi della politica sono provvedimenti simbolici, che non possono realmente sanare la nostra economia e influire sulle nostre vite. Ma il costo delle 629.000 auto blu italiane - record mondiale, un numero superiore alla popolazione di una città come Genova - pur essendo di difficile valutazione, si aggira tra i cinque e i venti miliardi di euro, a seconda della fonte. Anche assumendo la cifra inferiore, è un valore economico superiore a quanto il Governo conta di ricavare dalla riforma delle pensioni. Che cosa era troppo difficile su questo tema, per il Professor Monti, da non essere fattibile in tre settimane di Governo?
E che dire della famosa asta sulle frequenze TV, su cui Berlusconi ha posto il veto per non dover sborsare troppi soldi di Mediaset?

Ecco, forse gli Italiani si erano illusi, dopo aver provato destra e sinistra, che un governo tecnico avrebbe realmente lavorato per l'Italia, che avrebbe fatto scelte comprensibili e condivisibili pur in un'ottica di differenze politiche che per forza di cose avrebbe scontentato qualcuno - il popolo di sinistra - più di altri.
Il rapporto con il precedente Governo diventa più stretto ad ogni lettura della manovra, ma rispetto all'esecutivo guidato da Berlusconi vi sono addirittura meno scusanti: diventa infatti difficile ritenere il Presidente del Consiglio ed i suoi ministri persone poco preparate, e credere che quanto abbiano scritto nel testo della manovra sia dovuto a ignoranza o ad un'errata valutazione. Diviene quindi logico pensare che in realtà Monti volesse salvaguardare le banche e la Chiesa, volesse colpire le pensioni, volesse essere accomodante con la casta politica. La crisi di rappresentatività che ne deriva è un fattore molto grave: i cittadini hanno ormai le spalle al muro, non possono aspettarsi rappresentazione dal Governo e dai partiti che lo sostengono, e difficilmente potranno darla ai partiti che non lo sostengono, perché a loro volta ai posti di comando il giorno precedente - la Lega Nord - o quello prima - l'Italia dei Valori. Sicuramente trarranno giovamento in termini di consenso forze oggi marginali e fuori dal Parlamento, ma se la manovra, fermi restando i saldi, non diverrà più equa in Parlamento, sarà forte nei cittadini l'idea di essere dinanzi all'ennesimo furto legalizzato, e, in assenza di un'adeguata rappresentanza politica, la tentazione di iniziare a farsi giustizia da soli.

venerdì 9 dicembre 2011

Vacilla l'impero dello zar

Dmitrij Anatol'evič Medvedev, presidente russo

Le elezioni parlamentari russe per il rinnovo della Duma, tenutesi il 4 dicembre 2011, costituiscono uno snodo epocale nella storia del gigante euroasiatico: sebbene il partito di Putin e Medvedev, Russia Unita, sia ancora di gran lunga la prima formazione del Paese e abbia conquistato la maggioranza assoluta dei seggi, il crollo verticale avuto da questa formazione rispetto alle precedenti elezioni del 2007 apre scenari nuovi nella politica della Federazione, che potrebbero portare grosse soprese già dal prossimo appuntamento elettorale.

Risultati delle elezioni legislative russe 2011

Il primo dato rilevante riguarda l'affluenza alle urne: si sono recati al voto, con il 99% delle schede scrutinate 65.665.259 elettori, con un'affluenza tra il 60% ed il 61%. Il dato risulta in calo rispetto al 2007, quando si recarono alle urne oltre sessantanove milioni di cittadini russi, con un'affluenza di poco inferiore al 64%.
Una diminuzione tutto sommato moderata in termini percentuali, che l'analisi dell'andamento dei partiti consentirà di inquadrare in maniera piuttosto precisa all'interno di un contesto di progressiva disaffezione politica verso il governo in carica.

I partiti dentro la Duma erano quattro nel 2007 e restano quattro nel 2011, disegnando uno scenario politico piuttosto semplice: da destra a sinistra, il Partito Liberal-democratico di Zhirinovski, Russia Unita di Putin e Medvedev, Russia Giusta di Levichev, ed infine il Partito Comunista della Federazione Russa di Zyuganov.
Ciò che tuttavia cambia drasticamente rispetto al 2007 sono le proporzioni tra le formazioni, che vedono di fatto una Duma profondamente rinnovata.

Composizione della Duma dopo
le elezioni legislative 2011

Il parlamento russo conta 450 seggi, assegnati attraverso un sistema proporzionale con una soglia di sbarramento piuttosto elevata. Partecipano infatti alla spartizione proporzionale dei seggi solo i partiti che superano il 7% delle preferenze, ed è inoltre garantito un diritto di tribuna per i partiti che si attestano tra il 5% ed il 6% (un seggio) e quelli che raggiungono un risultato tra il 6% ed il 7% (due seggi).
La durezza della soglia di accesso è rimarcata dal fatto che il sistema elettorale non prevede la dichiarazione di coalizioni, costringendo ogni partito a correre con i propri mezzi.

Ai blocchi di partenza si presentavano sette formazioni, da destra a sinistra:
  • Partito Liberal-democratico di Russia, di stampo nazionalista e xenofobo
  • Russia Unita, conservaotre di impronta nazionalista e populista
  • Giusta Causa, formazione conservatrice
  • Partito Democratico "Jabloko", partito liberale ed europeista
  • Russia Giusta, di vocazione socialdemocratica
  • Patrioti della Russia, formazione di sinistra nazionalista
  • Partito Comunista della Federazione Russa, erede del PCUS
Lo scenario costituisce una semplificazione rispetto al 2007, quando le formazioni in lizza erano ben undici. Alcune formazioni che hanno partecipato alle precedenti elezioni legislative, come il Partito Agrario e Potere Civile, assieme ad altri come gli ecologisti, hanno deciso di appoggiare il candidato di Russia Unita, Medvedev.

Esaminando lo scacchiere politico russo, da destra a sinistra, queste elezioni si concludono in maniera dolceamara per i liberaldemocratici. Se infatti è vero che incrementano il proprio bacino elettorale di circa due milioni di consensi, aumentano la propria quota percentuale del 3,5% e si portano a 56 seggi nella Duma, è anche innegabile che si tratta di uno dei partiti che ha conseguito gli incrementi più bassi, venendo per altro scavalcato da Russia Giusta come terza forza del Paese. La condivisione di certi tratti ideologici con Russia Unita non è stata sufficiente per garantire al Partito Liberal-democratico di Russia il massiccio afflusso dei voti in fuga dalla formazione di Putin, e costituisce forse la spia più significativa della mutazione politica in corso nel Paese.

Proprio su Russia Unita, tuttavia, devono concentrarsi le maggiori analisi del risultato elettorale. 49,32%: è questo numero, di poco sotto la soglia della maggioranza assoluta, che viene sbandierato con orgoglio dalle forze di opposizione come l'inizio della fine dello zar Vladimir Putin. In realtà Russia Unita mantiene il controllo della Duma, grazie all'alta soglia di sbarramento prevista dalla legge elettorale che garantisce al partito 238 seggi contro i 226 necessari per controllare l'Aula. Tuttavia il partito subisce un vero e proprio tracollo: con trentadue milioni di preferenze circa, Russia Unita lascia sul campo oltre il 27% delle preferenze raccolte nel 2007; un dato oggettivamente impressionante. Anche in termini di seggi la formazione a sostegno di Medvedev perde tantissimo, lasciando 77 posti ai partiti di opposizione.
I dati di Russia Unita diventano ancora peggiori se si tiene conto del fatto che diversi partiti presenti nel 2007 avevano concesso il loro appoggio a Medvedev senza concorrere direttamente alle elezioni. Sommando quindi i dati del 2007 di Potere Civile e del Partito Agrario a quelli di Russia Unita si evidenzia come il complesso delle formazioni a sostegno dell'attuale presidente sia stato di oltre quattordici milioni e mezzo di preferenze, poco meno di un terzo dei voti. Un crollo verticale, che solo per poco ha concesso il controllo della Duma a Russia Unita: due milioni di voti in meno a Russia Unita sarebbero infatti stati sufficienti a rendere la Duma ingovernabile da un solo partito, costringendo la Russia ad un governo di coalizione. In ogni caso, la formazione di Putin e Medvedev non avrà più a disposizione la maggioranza dei due terzi necessaria per approvare in autonomia le riforme costituzionali.

Giusta Causa, al suo debutto alle legislative, ottiene un risultato tutto sommato modesto, mostrando come il popolo russo sia, storicamente, poco aperto alle novità dal punto di vista politico.

Spostandosi verso il centro dello schieramento, i liberali europeisti dello Jabloko mostrano un netto incremento raddoppiando le preferenze rispetto a quattro anni fa, ma restando tuttavia ampiamente al di sotto della soglia del 5% necessaria per ottenere il diritto di tribuna alla Duma.

Esultano i socialdemocratici di Russia Giusta: i socialdemocratici guidati da Levichev scavalcano infatti il Partito Liberal-democratico di Russia come terza forza del Paese, incrementando di oltre tre milioni di voti il proprio consenso e del 5,5% la propria quota percentuale. Alla Duma passano da 38 a 64 seggi.

Il partito maggiormente avvantaggiato dalla crisi di Russia Giusta, in maniera quasi paradossale, è però il Partito Comunista, che inanella numeri notevoli: oltre dodici milioni e mezzo di voti, oltre quattro e mezzo in più rispetto al 2007; oltre il 19%, ovvero sette punti in più rispetto alle precedenti elezioni nonché il risultato più alto dal 1999; 92 seggi alla Duma.
Una spiegazione per la forte risalita dei comunisti in Russia è da riscontrare, in realtà, proprio nel conservatorismo generale dell'elettorato; ora che il ciclo politico di Putin pare avviato al tramonto, i Russi, piuttosto che dare la propria fiducia a forze di rinnovamento, iniziano a guardare all'unica forza con cui possono effettuare un confronto di vita vissuta, ed in questa fase dello scontro politico la scelta sta favorendo proprio il Partito Comunista.

In generale, le forze ascrivibili a destra e centrosdestra ammontano al 61% circa, meno del solo risultato di Russia Unita nel 2007; la quota residua, il 39%, è ascrivibile a forze di centrosinistra e sinistra. Il Paese risulta quindi ancora profondamente sbilanciato a destra, ma si nota un forte riequilibrio rispetto alle precedenti elezioni legislative.

Distribuzione territoriale del voto di Russia Unita

Distribuzione territoriale del voto del
Partito Comunista della Federazione Russa

Dal punto di vista geografico è possibile cogliere in maniera significativa l'entità della discesa di Putin: pur essendo pressoché ovunque il partito di maggioranza relativa, Russia Unita ottiene prestazioni piuttosto negative nelle città di Mosca (46%) e San Pietroburgo (35%) e in generale nei popolosi distretti europei solo raramente supera la soglia del 50%. Al contrario ottiene risultati bulgari nelle piccole repubbliche caucasiche: 90% in Inguscezia, 91% in Dagestan, 99% in Cecenia. Risultati sbalorditivi anche in Mordovia (92%).

Sebbene si tratti in genere di regioni piccole e poco popolose, risultati del genere hanno fatto gridare ai brogli all'opposizione: rappresentanti dei partiti di opposizione hanno denunciati casi di voti multipli e di allontanamenti dei rappresentanti di lista tanto dai seggi quanto dal comitato centrale per le elezioni. Analogamente, sono emerse evidenti disparità a favore di Russia Unita tra i risultati validati dall'ente elettorale e quelli emersi dei singoli seggi. Un articolo apparso su lenta.ru riporta un'analisi statistica del voto, evidenziando come la curva delle preferenze per Russia Unita si discosti in maniera sensibile da una gaussiana, rendendo probabile l'idea di brogli elettorali in diverse sezioni.
Le opposizioni chiedono l'annullamento della consultazione elettorale e nuove elezioni, ma al di là della frode democratica in realtà è nettamente improbabile che la somma dei brogli fosse tale da togliere a Russia Unita il controllo della Duma.
Putin controlla ancora la Russia, ma è sempre più evidente come il suo impero si stia avviando verso la fine.

lunedì 5 dicembre 2011

Arriva la cura Monti

Riunione del Consiglio dei Ministri

L'attesa è finita.
Nella giornata di domenica 4 dicembre si è tenuto il Consiglio dei Ministri numero 5 del Governo Monti, quello che ha varato la anovra economica che dovrebbe - nelle intenzioni dei proponenti - salvare il Paese dal default e mettere in sicurezza i conti pubblici, riportando in pareggio il bilancio del Paese e iniziando un processo di abbattimento del nostro schiacciante debito pubblico.

In una lunghissima conferenza stampa, trasmessa anche dai principali canali televisivi, il Presidente del Consiglio e i Ministri coinvolti hanno illustrato la versione della manovra licenziata dal Consiglio dei Ministri, che verrà poi illustrata alle Camere il giorno 5 dicembre e agli Italiani, nel salotto televisivo di Porta a Porta - vera terza Camera del Paese - il giorno successivo.

Il bilancio della manovra economica è di 30 miliardi lordi di euro, letteralmente sbriciolando, sul totale di tutti gli interventi occorsi nell'anno, qualsiasi precedente nella storia d'Italia.
In particolare, una cifra tra i 12 e i 13 miliardi di euro verrà ottenuta tramite riduzioni di spesa, laddove la quota residua, 17-18 miliardi verrà ricavata tramite maggiori entrate.
Da un'overview generale del provvedimento si coglie un certo sbilanciamento verso una politica delle tasse rispetto ad una reale incisione sulle sacche di rendita che ammorbano il Paese, e sono evidenti certe timidezze propositive, in forma tanto di provvedimenti di carattere puramente simmbolico quanto di norme che paiono appena abbozzate, che fanno ben capire come il Governo Monti abbia percorso un sentiero in realtà molto stretto per garantirsi quel sostegno parlamentare di cui ha bisogno per tradurre in realtà le proprie proposte.
È difficile leggere la verità nelle dichiarazioni di forze politiche impegnate in un sottile gioco psicologico di rivendicazioni e paletti in grado di posizionarle nella maniera migliore per non perdere voti dinanzi alla manovra economica, ma è innegabile che - pur contenendo elementi spiccatamente di sinistra - il grosso della legge economica appaia ispirato a filosofie di destra; d'altra parte, l'attuale proporzione di forze in Parlamento e la stessa composizione dell'esecutivo, per cuanto tecnico, non potevano che condurre a questa conclusione.

Dal punto di vista delle imposte, la prima stangata riguarda le accise sui carburanti: per la benzina verde si passa infatti da 622,10 € a 704,20 € per mille litri (+13%), per il diesel l'aumento è da 481,00 € a 593,20 € (+23%), il GPL vede un aumento da 125,00 € a 267,77 € ogni mille kg (+114%) e infine per il metano viene introdotta una tassa da 0,00331 € per m3. Le norme saranno valide dal 1 gennaio 2012
Per di più, dal 2013, vi sarà un ulteriore ritcco per benzina e diesel di ulteriore 0,50 € ogni mille litri.
Secondo le intenzioni del Governo, le maggiori accise sui carburanti verranno utilizzate per il finanziamento del trasporto pubblico locale.

Un secondo capitolo riguarda una serie di imposte su beni di lusso, che possono essere ascritti ad una forma di patrimoniale: in particolare, viene introdotta un'imposta erariale sui velivoli privati calcolata secondo la tabella riportata; per velivoli di altratipologia si paga un importo fisso di 450,00 €.

Imposta sugli aeromobili

In secondo luogo, per le auto con potenza superiore a 170 kW viene introdotto un aggravio sul bollo pari a 20 € per ciascun kW eccedente, e l'incremento sarà valido tanto per le auto di nuova immatricolazione quanto per quelle usate. È da segnalare su questo tema che l'imposta, secondo quanto riporta Il Manifesto, colpirà solo marginalmente il Gruppo FIAT, dal momento che - con l'ovvia eccezione di Maserati e Ferrari - saranno solo tre i modelli coinvolti.
Colpite anche le imbarcazioni, che dovranno pagare una tassa sull'ormeggio calcolata come riporta la seguente tabella.

Imposta sugli ormeggi

Trova posto all'interno di questo capitolo anche l'estensione del bollo dai soli conti correnti a tutti gli altri strumenti bancari (ad esempio depositi titoli, polizze vita e fondi mobiliari) con la sola eccezione dei fondi pensione e dei fondi sanitari. Le qliquote non sono ancora state comunicate, ma le indiscrezioni affermano che vi sarà una soglia di esenzione e che per gli investimenti superiori a 5.000 euro l'imposta di bollo subirà circa un raddoppio.

Dal punto di vista della tassazione, tuttavia, l'elemento predominante è costituito dagli interventi sulla casa, che agiscono in una doppia direzione. Da un lato viene operata una rivalutazione una tantum delle rendite catastali, secondo i coefficienti riportato in tabella, dall'altro sarà introdotta l'IMU, una riedizione della vecchia ICI, con aliquota pari allo 0,4% ± 0,2% per la prima casa, e 0,76% ± 0,3% per le abitazioni successive. Inoltre, per l'abitazione principale, verranno detratti 200 € dall'importo complessivo per l'imposta, andando quindi sostanzialmente a portare la tassazione in una forma simile a quanto previsto dal Governo Prodi II. La rivalutazione delle rendite catastali si applicherrà solo sul calcolo dell'IMU, non avrà invece effetto sull'IRPEF e sulle operazioni di compravendita.

Rivalutazione delle rendite catastali

Dopo le indiscrezioni che volevano ritocchi anche all'IRPEF, quasi a sorpresa non vi sono stati gli annunciati incrementi alle due aliquote più alte. Al contrario, è stata ritoccata l'addizionale regionale dallo 0,90% all'1,23%, andanto così a pesare su tutti i lavoratori e non solo su quelli più abbienti.

Infine, per quanto riguarda il fronte delle tasse, i capitali rientrati in Italia con il Decreto Legge 194/2009 (scudo fiscale) subiranno una tassazione una tantum pari all'1,5%. Tale imposta è stata fatta passare come bollo per essere inattaccabile malgrado la sua azione retroattiva.

Nella manovra, in realtà, si parla di un ulteriore intervento in materia di fisco, che riguarda un ulteriore inasprimento dell'IVA dopo quello del settembre 2011: l'aliquota attualmente al 21% e quella al 10% saliranno rispettivamente al 23% e al 12% a partire dal 1 settembre 2012, e al 23,5% e al 12,5% al 1 gennaio 2014. Tali normative, tuttavia, sono state inserite come clausole di salvaguardia, da adottarsi solo in caso di reale necessità. In realtà, l'entrata in vigore di queste nuove aliquote è automatica, e dovrà pertanto essere espressamente abrogata in caso di effettiva stabilizzazione dei nostri conti pubblici.

Il secondo filone di intervento è la lotta all'evasione fiscale. Tra le manovre inserite in questo calderone spicca la tracciabilità dei pagamenti, con l'abolizione dell'uso del contanto per le transazioni superiori a 1.000 €, che scendono a 500 € per la pubblica amministrazione. In tale modo il Governo spera di andare a incidere sui pagamenti in nero, che costituiscono una doppia evasione, sia dell'IRPEF che dell'IVA.

Inoltre, verrà fatto obbligo alle imprese di dichiarare il canone RAI nella dichiarazione dei redditi, andando in questo semplice modo a colpire una tassa ad oggi molto evasa.

Terza macrocategoria di intervento è quella relativa allo sviluppo. Il primo intervento su questo tema è la stabilizzazione della detrazione del 36% per le opere di ristrutturazione - al tempo stesso incentivo al mercato edilizio e freno alla cementificazione di territorio vergine - con un'estensione per le zone colpite da calamità naturale. Prorogati fino al 2014 gli sgravi del 55% per la riqualificazione energetica degli edifici.

In secondo luogo spicca la liberalizzazione dei farmaci di fascia C, che potranno essere venduti anche nelle parafarmacia, in un'ideale riproposizione delle lenzuolate di Bersani del 2006-2007. Sempre in tema di liberalizzazioni è prevista la creazione di un'autorità specifica per i trasporti, per traghettare il processo in quel delicato settore; inoltre verrà aperta la possibilità per i gestori delle pompe di benzina di rifornirsi da qualsiasi produttore esse scelgano, e verrà liberalizzato l'orario di apertura dei degli esercizi commerciali nelle località turistiche. Infine gli ordini professionali verranno aboliti se entro il 13 agosto 2012 non verrà varata una riforma per il loro riordino generale.

Verrà inoltre potenziato di 20 miliardi il fondo di garanzia a favore delle piccole e medie imprese eriaperto l'Istituto per il Commercio Estero.

L'intervento forse però più importante da questo punto di vista è uno sgravio per le aziende che assumono personale, sia attrverso la deduzione dall'IRES e dall'IRPEF della quota IRAP relativa alla quota imponibile delle spese per il personale dipendente e assimilato, sia attraverso una vera e propria riduzione dell'IRAP per le assunzioni di donne e giovani.
Analogamente, ed in misura analoga a quanto fatto in passato da Visco con la dual income tax, verranno previsti sgravi fiscali alle aziende che ricapitalizzano.

Il capitolo più corposo della manovra è tuttavia quello dei tagli, una riforma molto profonda e articolata che modificherà sostanzialmente la vita dei cittadini italiani.
Il primo colpo di scure riguarda gli enti locali: le regioni vedranno diminuiti i propri trasferimenti di oltre 3 miliardi a partire dal 2012; i comuni vedranno decurtata la propria quota di trasferimenti statali di 1,45 miliardi per quelli sopra i 5.000 abitanti, mentre l'intervento verrà esteso anche ai comuni tra 1.000 e 5.000 abitanti dal 2013; le province, infine, vedranno dal 2012 le proprie entrate calare di 415 milioni.

Proprio a proposito di province, il Governo Monti non si è dimenticato dell'espressa volontà di sopprimerle, e imprime una decisa accelerata al processo, con una riforma che ne trasforma radicalmente le competenze ed il significato stesso. Verranno infatti ridotti a 10 membri i consigli provinciali, con la riduzione dal 30 novembre 2012 di oltre 500 consiglieri, e saranno organismi eletti dagli amministratori locali e non più per elezione diretta, in una sorta di applicazione generalizzata delle città metropolitane previta dall'ultimo Governo Berlusconi. Inoltre i compiti delle province dovranno essere unicamente di controllo e indirizzamento dei Comuni in temi di scuola e reti viarie, senza più alcun reale potere decisionale. A tal punto si spinge l'opera di Monti che scompare la compartecipazione provinciale all'IRPEF, lasciando quindi il solo bollo auto come fonte di ingresso per tali enti. Un colpo di fatto mortale all'istituzione provinciale, che sopravviverà in forma evanescente nell'attesa della definitiva cancellazione.

Verrà inoltre eseguito un accorpamento degli organismi di garanzia e degli enti previdenziali, mentre alcuni enti, come l'agenzia per la sicurezza nucleare o l'agenzia per la diffusione delle tecnologie per l'innovazione, saranno semplicemente soppressi.

Sul fronte della politica, oltre alla proposta autonoma del Parlamento sul passaggio al contributivo per i parlamentari, emerge dalla manovra economica il divieto di cumulo degli stipendi per chiunque ricopra cariche elettive previste dalla Costituzione.

Inoltre verrà anticipata la prescrizione delle lire ancora in circolazione, a favore dell'erario.

La principale fonte di cassa della manovra, tuttavia, sarà una imponente riforma del sistema previdenziale, ristrutturato in modo sostanziale e molto pesante per i cittadini italiani. L'entità della riforma ricorda da vicino lo scalone Maroni del Governo Berlusconi III, ma vi sono elementi nella proposta dell'attuale esecutivo che rendono questa riforma ancora più pesante per i lavoratori.
Il primo punto della manovra riguarda un ulteriore innalzamento dell'età pensionabile: a fronte infatti dell'eliminazione della finestra mobile, dal 1 gennaio 2012 l'età pensionabile delle donne sarà 62 anni e quella per gli uomini sarà 66 anni. Ad entrambe le quote sono da sommare 6 mesi per gli autonomi. La finestra di uscita potrà spingersi fino a 70 anni. Negli anni successivi, le donne inizieranno un percorso di adeguamento dell'età pensionabile fino al raggiungimento degli uomini nel 2018; il primo scaglione sarà 63 anni nel 2014. Dal 2020 l'età pensionabile sarà 67 anni per tutti.
In secondo luogo, la rivalutazione sulle pensioni sarà azzerata salvo per una quota parte inferiore o pari al doppio dell'assegno sociale, quindi intorno ai 950 €.
Il terzo aspetto riguarda il passaggio al regime contributivo per tutti, anche per coloro che con la riforma precedente avevano mantenuto il retributivo. Per costoro la quota contributiva scatterà a partira dal 1 gennaio 2012.
Infine, le pensioni di anzianità: spariranno le finestre previste dal Governo Prodi, e l'età di 40 anni verrà innalzata a 41 e un mese per le donne e 42 e due mesi per gli uomini. Tuttavia, tale quota da sola non verrà considerata sufficiente: chi avrà infatti i requisiti di anzianità contributiva ma non quelli di vecchiaia potrà lasciare il lavoro con una penalizzazione del 3% per ogni anno di anticipo sulla soglia di vecchiaia.
Le persone maggiormente penalizzate da questa riforma sono i nati nel 1952, che per nemmeno un mese vedono ingigantirsi il tempo di permanenza sul lavoro. Ad esempio, una donna nata nel 1952 con 36 anni di servizio a fine 2011 è passata dall'andare in pensione nel 2012 con la riforma Prodi al 2013 con l'apertura della finestra mobile di Tremonti e ora potrà andare in pensione nel 2015, a 63 anni, non potendo nemmeno sfruttare soglia 62 in quanto nel 2014 vi sarà un ulteriore scalino automatico. Peggio ancora va agli uomini: un uomo nelle medesime condizioni di anzianità lavorativa vedrà la propria pensione slittare dal 2013 al 2018, ovvero cinque anni di lavoro in più.
Rivoluzionato anche il sistema dei lavori usuranti: se infatti fino al 2017 sarà necessario aver svolto per sette anni un lavoro considerato tale per avere diritto all'accesso alla pensione anticipata, dal 2018 tale periodo sarà portato a metà della propria vita lavorativa.
Infine, le aliquote del prelievo sugli autonomi, attualmente inferiori di circa il 10% rispetto ai dipendenti, subiranno un incremento dello 0,3% annuo fino al 2018, per ridurre almeno in parte il gap.
Una manovra oggettivamente pesante, pensata con il solo scopo di fare cassa.

Un articolo a margine dei precedenti, per la tutela della banche italiane, rischia di essere però l'aspetto più clamoroso della manovra, in grado di distruggere la rete di fiducia che Monti ha saputo costruirsi negll'ultimo mese: secondo le indiscrezioni lo Stato, ovvero i cittadini, si faranno garanti delle perdite delle banche italiane senza alcuna pretesa di nazionalizzazione o controllo. Un sistema perverso, in pratica, che consentirà agli istituti di credito di scaricare le proprie perdite sullo Stato e quindi sui cittadini.
La speranza è che il dettaglio della manovra permetta di fugare simili dubbi e restituire dignità ad una manovra che, con le sue luci e le sue ombre, sembrava fatta quantomeno nell'interesse del Paese.

Questa nuova finanziaria è oggettivamente molto pesante e dura, e come anticipato sbilanciata a destra. La tassazione sui capitali scudati è ben misera cosa rispetto ai sacrifici imposti sulle pensioni, e anche sulla patrimoniale e sulla lotta all'evasione le manovre sono più timide di quello che avrebbero potuto essere. Non si parla di ICI sui beni ecclesiastici né di riduzione delle spese militari.
Il dibattito però non deve vertere tanto sulla bontà della manovra: essa è frutto di un compromesso tra le forze eterogenee che dovranno votarla e lo strettissimo sentiero che ci lascia aperto il nostro debito pubblico soverchiante; molto più importante è capire la sua utilità.
Dopo così tante manovre bruciate dallo spread impazzito da più parti si è levato il dubbio che in realtà vi sia un attacco concertato all'Italia finalizzato alla svendita e alla distruzione del patrimonio dello Stato, e che quindi qualsiasi sacrificio richiesto non sia altro che la vendita di un'illusione fino a quanto il nostro Paese, ormai svuotato, verrà abbandonato e lasciato a sé stesso. Dinanzi ad una simile visione, che richiederebbe l'esistenza di enti e personaggi così potenti da pilotare i mercati internazionali, è difficile mantenere la necessaria concentrazione, ma non bisogna tuttavia dimenticare che se l'Italia è così esposta sui mercati internazionali è principalmente per colpa delle politiche dissennate che hanno fatto schizzare alle stelle il suo debito. Ogni manovra che punta alla sua riduzione deve pertanto essere accolta come un passaggio necessario, pur doloroso, e soprattutto utile per disegnare l'assetto del nostro futuro.

Monti, quindi, ha fatto i compiti urgenti che da lui erano richiesti dalle UE e che il precedente esecutivo non era riuscito a portare a termine; vi sarà sicuramente altro nel futuro di questo governo tecnico, e si spera più improntato alla crescita che al rigore, ma ora la palla torna a Bruxelles. L'Italia ha dimostrato di poter essere in grado di fare la propria parte, ed i mercati hanno premiato questa scelta con una discesa sostanziosa dello spread dei BTP; ora il vertice di venerdì 9 dicembre mostrerà se anche la UE ha il coraggio necessario a compiere quelle scelte necessarie a proteggere il continente da simili attacchi in futuro, oppure se le istanze nazionaliste prevarranno ancora una volta.

venerdì 2 dicembre 2011

La previdenza degli onorevoli

Antonio Borghesi (IdV)

La classe politica italiana non si smentisce, e ancora una volta offre il peggio di sé alla vigilia dei nuovi importanti sacrifici che il Governo Monti chiederà alla popolazione su temi fiscali e previdenziali.
Il famoso trittico tra rigore, crescita ed equità che tanti entusiasmi e speranze del discorso di insediamente del nuovo Presidente del Consiglio, che tante speranze aveva susscitato dopo le dimissioni di Berlusconi, pare - almeno stando alle voci che si stanno diffondendo prima del chiarificatore CdM di lunedì 5 dicembre - infatti essere finito almeno in parte nel dimenticatoio, dal momento che tutte le indiscrezioni sono mirate sui temi del ritorno dell'ICI, della mini-patrimoniale, della rivalutazione delle rendite catastali e soprattutto di una nuova riforma previdenziale.
Molto rigore, un po' di equità, ma sicuramente per le misure relative allo sviluppo economico sarà necessario attendere - salvo clamorose smentite lunedì prossimo.

Un punto in particolare desta però speciale attenzione, ed è stato ripreso recentemente anche dai media: secondo la revisione dei regolamenti di Camera e Senato promossa dai rispettivi Presidenti Fini e Schifani, infatti, anche per i parlamentari - massima espressione della cosiddetta "Casta" - scatterà l'adeguamento al sistema contributivo, e soprattutto la data del ricevimento del vitalizio verrà fissata a 60 anni di età per coloro che hanno più di un mandato alle spalle, e 65 per gli eletti attualmente al primo mandato. Questo, naturalmente, se la proposta verrà effettivamente resa esecutiva.
Una situazione molto simile, a quella che il Ministro Fornero disegna per i milioni di contribuenti italiani che non hanno la fortuna di sedere in Parlamento.
Di fatto si verrebbero a delineare tre situazioni differenti tra loro: da un lato gli ex-parlamentari, per i quali resterebbe una situazione invariata; dall'altro invece vi sono i parlamentari in corso, per i quali si applicherebbero le nuove regole, e all'interno di questo calderone si devono distinguere coloro che hanno già maturato gli attuali quattro anni, sei mesi e un giorno e che avrebbero quindi diritto alla pensione con le attuali regole, che vedrebbero negarsi dei "diritti acquisiti", e dall'altro i parlamentari che non hanno ancora maturato tale anzianità di servizio.

Un mix di situazioni che consentono numerosi appigli contro una norma che sta causando una vera e propria rivolta in Parlamento, con toni e argomenti che raccontano più di mille analisi la distanza siderale tra elettori ed eletti, e che evidenziano la differente importanza che la nostra classe politica assegna ai propri problemi personali e a quelli del Paese.

Una proposta demagogica per indorare la pillola agli italiani che dovranno subire i tagli delle pensioni. [Gianluca Pini, Lega Nord Padania]

A me della pensione non frega niente, ma l'operazione deve iniziare dal 1945, perché chi propone i tagli è in Parlamento da decenni. [Massimo Calearo Ciman, Popolo e Territorio]

Prima facciano chiarezza sui loro conflitti di interessi, poi ci chiedano i sacrifici. [Alessandra Mussolini, Popolo della Libertà]

Siamo furibondi. Fini e Schifani non pensino di fare questa operazione sulla testa delle nuove generazioni. [Francesco Boccia, Partito Democratico]

Dai miei calcoli saranno 1500 e non più 2500 euro, ma vanno bene anche 900, voglio essere uguale ad un metalmeccanico, ma la Camera ci deve versare i contributi figurativi, capito? [Rolando Nannicini, Partito Democratico]

Facciamo una vita da cani ... io e mia moglie prendiamo trentamila euro al mese? Le ho già spiegato che se uno investe nella politica quei soldi sono pochi. [Michele Pisacane, Popolo e Territorio]

Ridurre deputati e senatori alla fame vuol dire rendere il Parlamento schiavo dei poteri forti. [Mario Pepe, Gruppo Misto]

Non esistono diritti acquisiti per gli altri lavoratori e dunque neanche dovevano essercene per gli ex parlamentari: così è un interventicchio. [Antonio Borghesi, Italia dei Valori]

Se un deputato entrato alla Camera con un diverso regime decidesse di fare causa allo Stato credo che vincerebbe. [Antonio Mazzocchi, Popolo della Libertà]

I diritti acquisiti non bisognerebbe mai toccarli, perché se sono acquisiti vuol dire che per acquisirli ha pagato qualcosa. Se si toccano questi diritti bisogna almeno ridare indietro i soldi versati, altrimenti è una truffa... rispetto a Fabio Fazio, che prende 2 milioni di euro l'anno, noi prendiamo 4.500 euro netti al mese. Hai voglia di farne di mesi prima di arrivare a 2 milioni. [Maurizio Grassano, Popolo e Territorio]

Come si vede, da ogni angolo dello schieramento politico emergono pareri contrari, con le motivazioni via via più adatte all'elettorato di riferimento e con alcune frasi, come quella di Pisacane, che suonano semplicemente come schiaffi alla gente comune.
La proposta viene addirittura criticata da fronti opposti tra loro: da un lato il democratico Boccia evidenzia come la riforma penalizzi i parlamentari più giovani e meno esperti, dall'altro Mazzocchi e Grassano si scagliano contro i passaggi che mettono in discussione i diritti acquisiti dai parlamentari in carica; di fatto, l'unica soluzione che accontenterebbe tutti sarebbe il mantenimento dello status quo...
La frase più emblematica pare però essere, in ultima analisi, quella di Pepe: il deputato del Gruppo Misto infatti da un lato evidenzia la distanza tra Casta e popolo parlando di parlamentari "alla fame" se passasse una riforma del genere, e dall'altro rimarca come i parlamentari di fatto non farebbero che cercare soldi altrove, finendo con il rappresentare sempre più chi li paga e sempre meno i cittadini.

L'unica critica in realtà almeno in parte costruttiva viene dall'Italia dei Valori: Antonio Borghesi, esponente dipietrista, dedica infatti un approfondito articolo sul suo sito all'argomento, in cui ne evidenzia, anche numeri alla mano, i tratti negativi.
In particolare, Borghesi si scaglia contro il fatto che chi percepisce già la pensione continuerà a farlo, e che, parificando i parlamentari ai precari, vi sarà un esborso mensile di circa 2.000 euro a parlamentare a carico dello Stato per il pagamento dei contributi; il tutto, sottolinea, a fronte di risultati che si faranno sentire in maniera incisiva solo quando inizierà a diminuire il numero dei parlamentari effettivamente pensionati con l'attuale sistema previdenziale. Nei primi anni, evidenzia ancora Borghesi, la nuova riforma potrebbe portare ad un aggravio per le casse dello Stato.

Quanto dice Borghesi è indubbiamente corretto, e sicuramente una maggiore dose di coraggio sarebbe servita. Eppure le critiche mosse dall'Italia dei Valori non possono essere un freno per votare contro questa proposta: affossare una legge perché "va nella giusta direzione ma non è abbastanza" è solo una scusa per perpetuare uno status quo intollerabile. Di fatto, pur mostrando una certa generosità, si tratta di una riforma che a medio termine inizierà a dare i suoi benefici, e proprio per questa ragione i partiti che più si dichiarano vicini alla cittadinanza non devono ostacolarla; al massimo, migliorarla ulteriormente.

Purtroppo, ciò che i parlamentari studiano non è questo, ma come salvare la propria pensione utilizzando escamotage di basso livello: coloro che hanno già maturato la soglia magica dei quattro anni, sei mesi e un giorno, potrebbero infatti dimettersi entro l'anno per ricevere l'attuale trattamento pensionistico. Un'idea che deve essere venuta a molti, se il capogruppo del PD alla Camera Franceschini è stato costretto a intervenire:

Se qualcuno pensa di ricorrere a una furbizia del genere, basta che l'Aula gli respinga le dimissioni.

Su altri fronti, il pidiellino Mazzocchi, avvocato, parla di ricorsi legali per evitare la perdita dei diritti acquisiti, tentando di formare un fronte trasversale per avviare una simile procedura in caso di approvazione della norma. Forse Mazzocchi dimentica che la finestra mobile voluta dal Governo che lui sosteneva incideva proprio sui diritti acquisiti...
E coloro che non hanno ancora maturato l'anzianità necessaria? Le dimissioni per questi parlamentari sarebbero inutili, ed ecco che nasce l'ipotesi, nientemeno, di una norma transitoria che possa traghettare l'attuale sistema previdenziale alla fine della legislatura.

Sebbene sia sempre necessario valutare i comportamenti delle singole forze politiche e dei singoli parlamentari - comportamenti che diverranno palesi al momento del voto - non si può fare a meno di dubitare del reale interesse per il bene dell'Italia della nostra classe dirigente, una classe dirigente che riesce persino a difendere i propri privilegi nel medesimo istante in cui ai cittadini già provati dalle passate manovre viene chiesto di compiere ulteriori sacrifici.
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