martedì 30 aprile 2013

Marilena Fabbri racconta l'elezione di Napolitano

Marilena Fabbri (PD)

Domenica 28 aprile il deputato del PD Marilena Fabbri, ex sindaco di Sasso Marconi e volto nuovo della politica nazionale grazie alle primarie parlamentari tenutesi a fine 2012, è stata protagonista di un incontro con militanti e simpatizzandi democratici al circolo PD di Calcara, piccola frazione del comune di Crespellano, nel bolognese.

Contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, non si è trattato di un incontro organizzato per catechizzare la base del partito sulle scelte della dirigenza, quanto piuttosto un momento di condivisione, in cui il pubblico ha potuto esprimere le proprie opinioni e considerazioni sulle vicende del partito e del governo, e in seguito l'onorevole Fabbri è intervenuta rispondendo nel merito dei malesseri che imperversano nella base, fornendo per di più un prezioso resoconto di quanto avvenuto in quelle fatali giornate che hanno portato alla sfiorata distruzione del PD, alla rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale e alla formazione di un governo di larghe intese con il PdL.

I partecipanti all'incontro, sicuramente più ascrivibili alla categoria dei militanti convinti che a quella dei semplici simpatizzanti, ha mostrato di aver in qualche modo metabolizzato la necessità dell'esperienza di un governo di coalizione, ma si è invece mostrata preoccupata sul ruolo che il PD potrà permettersi di giocare all'interno di tale esecutivo, se programmaticamente protagonista o semplice spalla di un PdL in grado di fare il buono e il cattivo tempo. Ciò che infatti la base ha ben chiaro è che un partito che si è presentato diviso persino su un tema così identitario come l'elezione di Prodi al Quirinale difficilmente sarà in grado di tenere una linea unitaria sul programma di governo, affossando in questo modo gli otto punti di Bersani e facendo passare, per via di fronde interne di vario genere, anche leggi sgradite all'elettorato democratico e al PD stesso.
Proprio il tema della mancata elezione di Prodi è stato il maggior tema di disagio e rabbia negli interventi dei militanti, sia per la figura del Professore - uomo-simbolo del centrosinistra - sia per la prova di scarsa unità fornita dal PD, che ha messo in luce un mondo di correnti e di veleni insospettato persino a molti tra i fedelissimi sul territorio.

Marilena Fabbri non si è tirata indietro dinanzi alle richieste di spiegazioni, e nel suo racconto sono emersi punti quasi surreali, che devono una volta di più far riflettere su quanto il PD, malgrado il simbolo elettorale, non si possa ancora definire un vero partito, ma piuttosto un semplice e fragile contenitore.
Nei giorni immediatamente precedenti l'elezione del Presidente della Repubblica, la dirigenza del PD aveva fissato alcuni paletti nell'ottica di individuare una rosa di papabili per il Quirinale da presentare alle altre forze politiche, nell'ottica di arrivare ad una figura il più possibile condivisa. Tali paletti, seguendo il metodo che aveva portato all'elezione di Grasso e Boldrini, erano competenza, novità e parità di genere.
Anziché procedere su queste basi formulando, all'interno della coalizione di centrosinitra, i nomi con cui presentarsi al centrodestra, al centro e al M5S, la dirigenza del partito ha condotto trattative nascoste persino ai propri eletti: la reale rosa di nomi proposta a Berlusconi - perché le altre forze politiche non sono state interpellate in tal senso - non è stata non solo condivisa con i grandi elettori di centrosinistra, ma neppure comunicata. I vari nomi che si sono succeduti, Amato, D'Alema, Mattarella, Marini, sono filtrati (con buona pace della parità di genere e della novità) direttamente alle agenzie di stampa senza che i gruppi di PD e SEL fossero realmente consapevoli di quanto stesse accadendo. Questo primo, madornale, errore ha innescato la miccia delle esplosioni dei giorni successivi: ha permesso a Berlusconi di proporre per primo il nome di Marini, in qualche modo di farlo proprio, e sostanzialmente di bruciarlo agli occhi del popolo di centrosinistra.
Nell'assemblea serale la dirigenza del partito ha imposto il nome di Marini, sorda alle lamentele che i parlamentari - e la base tramite essi - hanno esposto. Dinanzi ad una mozione di voto su Marini che ha preso la maggioranza relativa ma non quella assoluta, dinanzi all'uscita consapevole e provocatoria dalla seduta da parte di una cospicua parte dei grandi elettori, dinanzi alle notizie che giungevano dai circoli, le tessere bruciate, le occupazioni, i messaggi accorati e quelli infuriati, la dirigenza, senza offrire spiegazioni, ha deciso di proseguire con la linea Marini. I risultati si sono visti, i parlamentari hanno scelto di stare con la base e contro la dirigenza del partito e contro Bersani, e - interamente alla luce del sole - sono iniziate le defezioni che hanno bruciato l'ex-segretario della CISL.
Il clima è diventato pesante, durante le votazioni per il secondo ed il terzo scrutinio serpeggiava la sfiducia al punto da arrivare a cronometrare il tempo passato in cabina da ciascun votante, ma chi a questo punto auspicava un cambio di registro, un maggiore coinvolgimento dei gruppi parlamentari o addirittura una consultazione della base è rimasto ancora una volta deluso. In primo luogo, il nome di Rodotà non è mai stato preso in considerazione; la proposta di votarlo non è mai stata messa ai voti, il rifiuto per la sua candidatura aprioristico o comunque non valutato in assemblea. Diverso esito ma stesse modalità per il nome di Prodi: il nome non è stato oggetto di discussione, ma è stato ancora una volta lanciato dalla dirigenza. L'acclamazione al nome del padre dell'Ulivo, racconta Marilena Fabbri smentendo alcune ricostruzioni giornalistiche, non è in realtà stata unanime: parte della sala stava in silenzio, parte della sala non ha alzato la mano. Costoro, tuttavia, sono rimasti in disparte, senza intervenire; un comportamento ben differente dalle proteste pubbliche relative alla candidatura di Marini. Anche qui, il risultato si è visto: 101 traditori hanno affossato Prodi; nelle parole di Marilena Fabbri, si intuisce una piccola minoranza che ha votato Rodotà per convinzione, ma unnutrito gruppo che ha deciso di far pagare a Bersani il siluramento di Marini, o che ha semplicemente deciso di affossare la linea politica del segretario, o ancora non vedeva di buon occhio per proprio tornaconto personale la pretesa di autosufficienza del centrosinistra sul nome del Professore. Quel che è certo, ci tiene a sottolineare la Fabbri, è che i colpevoli della figuraccia sul nome di Prodi non vanno cercati tra coloro che sono stati eletti con le primarie parlamentari, come subito qualcuno ha tentato di affermare.
Arrivati a questo punto lo scenario assume contorni surreali: dinanzi ad un gruppo parlamentare evidentemente spaccato, incapace di trovare una sintesi, con una base infuriata che chiede ascolto, i gruppi parlamentari non vengono consultati sulla scelta di un nuovo nome, e scoprono invece dalle agenzie di stampa che Bersani si è recato da Napolitano per pregarlo a rimanere. Scelta con il senno di poi azzeccata per la tenuta del partito, ma condotta in una maniera assolutamente sbagliata e - quel che più conta - anacronistica.

Il PD che emerge dalle parole dell'onorevole Fabbri è un partito che non ha ancora digerito la novità sostanziale apportata dalle primarie, almeno a livello dirigenziale, e si appella ad una disciplina di partito che nell'era di internet non solo risulta impossibile, ma si dimostra anche inadeguata e controproducente. Con questo non si vuole dare credito a chi sogna un partito gestito direttamente dalla sua base, ma il coinvolgimento nei processi decisionali, e la condivisione delle scelte almeno in apparenza controproducenti devono essere fasi obbligatorie nella moderna struttura di un partito.
Il PD ha oggi perso questa sfida, non è chiaro se per persone inadeguate o per interessi talmente inconfessabili da non poter essere svelati nemmeno all'interno del gruppo parlamentare. Servirà un intenso lavoro di riorganizzazione per recuperare la credibilità perduta e soprattutto per familiarizzare con tecniche di gestione del partito più moderne, improntate sul giusto equilibrio tra la il potere della delega fornita ai propri rappresentanti e la consultazione di militanti e simpatizzanti. Tutte cose che il PD da statuto prevede, ma che non ha mai avuto il coraggio di attuare.

La triste storia dell'elezione di Napolitano è stata lo spunto per Marilena Fabbri per arrivare a considerazioni di ordine più generale sulla vita del Partito Democratico, e quello che emerge è una formazione immobile, incapace di prendere decisioni su qualsiasi tema spinoso, imbavagliata dalla paura dei veti incrociati delle mille correnti che la attraversano senza che il bene del partito nel suo complesso possa fungere da collante unitario alle spinte dispersive.
Dai diritti civili all'abolizione delle province, dalla riforma del lavoro al posizionamento in politica estera, non è mai stato fatto alcun tentativo di sintesi tra le varie posizioni all'interno del PD, posizioni che risalgono ai partiti preesistenti e che ancora tengono in ostaggio il partito. Tra veti, ricatti e minacce di sfasciare tutto, i punti controversi non sono mai stati discussi, ciascuno tenta di portare acqua al proprio mulino ed il risultato è una cacofonia di opinioni deleteria dal punto di vista elettorale e politico.

In questo quadro desolante gli iscritti sono secondo Marilena Fabbri il principale fulcro di una possibile riscossa: il prossimo congresso potrebbe segnare un reale punto di svolta nella storia del partito, completando quella lenta rivoluzione iniziata nel 2007... oppure decretandone la sconfitta definitiva.

mercoledì 24 aprile 2013

Reset PD (Parte II)

I funerali di Togliatti, di Renato Guttuso

Nella prima parte di questo articolo si è affrontato il bivio a cui si trova oggi il PD, partito la cui sopravvivenza appare sempre più a rischio, dal punto di vista della chiusura e dell'apertura verso il proprio elettorato.

Non meno importante è tuttavia il problema della collocazione politica. Nato dalla fusione di due anime ben distinte per quanto - relativamente - vicine, il PD soffre tuttora della dicotomia politica tra posizioni prettamente di sinistra, o quantomeno rifacentisi alla socialdemocrazia, posizioni cristiano-sociali, per arrivare ad un'anima liberaldemocratica che ne costituisce l'ala più di destra.
La nascita ventura del prossimo esecutivo, che presumibilmente vedrà l'appoggio delle stesse forze che hanno sostenuto il Governo Monti (con in più forse la Lega Nord), metterà a dura prova la tenuta di un partito così variegato nella sua composizione, ed il rischio di una scissione o quantomeno di una fuoriuscita appare quantomai concreto.

Il Partito Democratico, e prima di esso l'Ulivo, è nato con la scommessa di saper sintetizzare - non solo conciliare, si badi bene: per quello, sarebbe stata sufficiente un'alleana tra partiti differenti - queste tre visioni della politica all'interno del filone cosiddetto progressista.
Arrivare a comporre un'offerta politica che riuscisse a raccogliere il meglio di queste tre culture e incanalarle in un progetto di senso compiuto.
La scommessa, ad oggi, si può considerare perduta, la sconfitta suggellata dalla mancata elezione di Romano Prodi, padre fondatore e uomo simbolo di questo ambizioso progetto.

Ripensare all'identità del PD significa quindi affrontare una duplice sfida: da un lato capire se sia in effetti possibile riunire sotto un'unica bandiera posizioni che oggi più che mai appaiono terribilmente distanti, e dall'altro, in caso di risposta positiva al primo punto, capire quale possa essere il risultato di una simile sintesi.

Forse anche a causa dei sogni e delle speranze suscitate nel popolo di centrosinistra - o per meglio dire degli Italiani che non si riconoscevano in Berlusconi - oggi praticamente non vi è chi non si lamenti della collocazione politica del Partito Democratico: troppo liberale, troppo socialdemocratico, troppo comunita (sic!), troppo laico, troppo cattolico.
Da un punto di vista prettamenteo teorico, questa insoddisfazione generalizzata potrebbe in effetti significare che la fusione è riuscita perfettamente, e che il PD è diventato qualcosa di altro rispetto alle proprie componenti costitutive. Se così fosse, tuttevia, lo scarso appeal risultante significherebbe solo il fallimento elettorale di questo amalgama, rendendone impossibile la realizzazione politica al di là della sua bontà effettiva.
Con ogni probabilità, tuttavia, non è questo il motivo: il gioco dei veti incrociati, formato da punti che ciascuna componente riteneva irrinunciabili unito al desiderio di predominio - o magari più semplicemente di conservazione identitaria - di ciascuna area verso le altre, ha semplicemente soffocato sul nascere ogni dibattito, impedendo a priori lo sviluppo di una linea politica indipendente, pur se fondata sulle radici delle ideologie dei partiti preesistenti.

A chi dice che il PD è morto è corretto rispondere che in realtà il PD non è mai nato: dove è vincente, spesso non è altro che la perpetuazione delle politiche e delle idee di una sua semplice componente, come avviene ad esempio in Basilicata e in Trentino, dove il governo si può considerare post-DC, e nelle regioni rosse dove il PD altro non è che una perpetuazione del sistema di potere del PCI.
La sfida era complessa al momento della nascita del partito e sicuramente è ancora più complessa ora, in un clima di disillusione e sfiducia in cui sono molti ormai a ritenere più coerente e politicamente premiante ritornare ad una struttura a due partiti separati. È difficile dire quale possa essere la soluzione giusta - o anche solo la soluzione vincente in termini elettorali - ma ciò che è indubbio che lo status quo è semplicemente inaccettabile.

L'incapacità di formulare un progetto politico preciso e soprattutto condiviso tra tutte le varie anime del partito ha bloccato l'azione del Partito Democratico. Mascherando la propria impotenza per senso di responsabilità, il PD ha di volta in volta riversato su terzi - Monti, l'Europa, il Presidente Napolitano, le maggioranze risicate in Parlamento - una incapacità cronica di fare sintesi su un qualsivoglia tema, limitandosi ad una mera presenza parlamentare di bandiera, all'occupazione del potere piuttosto che all'esercizio del potere.
Non cessa di sorprendere a questo proposito la radicale differenza tra l'operato parlamentare e quello locale, dove invece le amministrazioni di centrosinistra brillano per efficacia.

L'inazione politica e la fuga dalle responsabilità di governo ha tuttavia avuto effetti ancora più nefasti, provocando un appiattimento del PD verso posizioni progressivamente sempre più estranee a tutte le anime del partito, fino ad appiattirlo letteralmente sulla destra berlusconiana.
Un appiattiamento che non significa (solo) seguire Berlusconi su strade sempre più di destra che hanno portato a considerare progressivamente accettabile ciò che fino a pochi anni prima magari sarebbe stato anche solo improponibile, ma anche laddove il PD mantiene posizioni distinte da quelle di Berlusconi, ha sempre lasciato al Cavaliere il compito di dettare l'agenda politica, limitandosi ad un gioco puramente di rimessa alla lunga perdente.

Il PD è un partito mai nato perché non ha mai fatto politica, e le cause di questo sono da ricercarsi nell'incapacità di portare a termine quel progetto di sintesi delle culture di provenienza.
Solo sciogliendo questo nodo e sviluppando un proprio programma autonomo - quale che sia: socialdemocratico, liberista, comunista, laico, cattolico - il PD inizierà ad essere veramente un soggetto politico; in caso contrario resterà, secondo una felice espressione di Bersani nel suo discorso di dimissioni, solo uno spazio politico.

La questione è solo generazionale?
La protervia con cui una certa dirigenza si è mantenuta al potere al di là delle proprie capacità politiche e della semplice logica anagrafica ha impedito di dare una risposta chiara a questa domanda. I nativi del PD, coloro che si sono affacciati alla politica con l'esperienza dei democratici o che comunque non hanno mai fatto espressamente riferimento alle ideologie precedenti, sarebbero stati in grado di trovare quella sintesi sfuggita all'attuale dirigenza del partito?
Questa era la sfida di Marino nel 2009, ma la sua sconfitta alla segreteria del PD rimise in sordina la questione. Questa, con ogni probabilità, è la sfida di Civati nel 2013, e si vedrà se questa volta gli esiti saranno differenti.

Tuttavia, osservando le differenti posizioni in campo percorrendo tutto l'arco politico da Renzi a Orfini, appare oggi quantomai difficile che una simile eventualità si realizzi pienamente. Cresciuti all'ombra dei rispettivi leader, sembrano più riproporre e portare avanti ciascuno le proprie politiche che impegnarsi nel tentativo di trovarne una nuova che le raccolga; uniti dallo scontro generazionale contro l'attuale classe dirigente, paiono in realtà più divisi che mai sul futuro del PD e sulla sua direzione politica.
E se le cose stessero veramente in questo modo, allora, forse, una separazione consensuale non potrebbe che giovare a tutti, Italia compresa.

domenica 21 aprile 2013

Reset PD (Parte I)

Nachtmahr, di Johann Heinrich Füssli

Quanto accaduto nelle elezioni del Presidente della Repubblica, culminato nella riconferma del mandato di Giorgio Napolitano, è con ogni probabilità l'evento più emblematico e doloroso della storia della sinistra italiana, per quanto con ogni probabilità destinato ad essere superato dagli eventi del prossimo futuro, a partire dalla formazione del prossimo esecutivo.

L'aver trasformato quella che sarebbe dovuta essere una cavalcata elettorale trionfale in uno scialbo pareggio, da lì arrivare progressivamente a chiudersi ogni strada politica che non fosse l'apertura a Berlusconi, l'aver rinnegato il proprio padre fondatore Romano Prodi, aver evidenziato l'incapacità di eleggere o anche solo proporre un nome per la Presidenza della Repubblica pur controllando nominalmente il 49% dell'assemblea dei grandi elettori, e infine il giungere alla formazione del governo come socio di minoranza di Berlusconi, è un capolavoro politico al contrario, che senza alcun dubbio i politici di domani studieranno come esempio negativo.

Quanto accaduto al Partito Democratico, in realtà, non è altro che la proposizione violenta e purulenta di tutte le contraddizioni interne che il centrosinistra italiano si porta dietro, e non solo dalla fondazione del PD nel 2007.
Alla prima votazione in cui i democratici potevano dettare la linea, sono esplosi in una miriade di correnti e correntine, ed è venuto alla luce un verminaio di scontri fratricidi e tradimenti che trascendono il concetto di normale dissenso dialettico fra correnti e assomigliano piuttosto ad una miserevole guerra tra bande.
Bersani si è dimostrato incapace di gestire il partito. Retrospettivamente, si potrebbe anche affermare che la sua campagna elettorale tutto sommato evanescente fosse legata a questo scarso controllo che il segretario aveva sulla propria formazione, ma anche sena arrivare a simili conclusioni il voto sulla Presidenza della Repubblica, culminato nell'implorazione a Napolitano di accettare un secondo mandato, ha messo per bene in luce come nel PD a comandare siano maggiorenti più o meno occulti, che controllano il voto infischiandosene tanto delle opinioni dei militanti e dei simpatizzanti quanto - soprattutto - della perorazione delle istanze del popolo che li ha scelti come rappresentanti.

Mai come ora la sinistra di governo italiana rischia di restare senza una rappresentanza politica: coloro che rifiutano l'esplicita alleanza con Berlusconi, che non approvano i metodi di Grillo e al tempo stesso non si identificano nel partito personalistico di Vendola sono un patrimonio di idee, competenze e in ultima analisi di voti impressionante, un vuoto potenziale che non tarderà ad essere colmato.
Ma come, e da chi?

Vi è chi dice che la sopravvivenza stessa del PD è in gioco. Sicuramente vero, ma è altrettanto vero che il PD è anche la formazione che ha le maggiori energie per uscire da un disastro del genere. Trattandosi di un partito non personalistico, le sue sorti non sono legate a quelle di una singola persona, né tantomeno a quelle del gruppo dirigente.
Sarà tuttavia il modo in cui si uscirà da questa situazione che determinerà il futuro del partito e in generale della sinistra italiana.

I problemi sono di due ordini: il primo riguarda la struttura del partito, il secondo invece, molto più prettamente, riguarda la collocazione politica.
In questa prima parte dell'articolo verrà analizzato il primo problema, ed in particolare il tema della rappresentanza e del ruolo degli iscritti e dei simpatizzanti.

Gli ultimi anni hanno visto - è innegabile - una progressiva apertura del partito verso la base, dapprima attraverso l'istituzione delle primarie per la scelta del segretario, e successivamente con l'apertura di questo genere di consultazioni anche per la scelta dei parlamentari.
La spaccatura nei voti per Marini prima e per Prodi poi durante le votazioni per il Quirinale rispecchia in maniera piuttosto fedele le divergenze tra la dirigenza del partito, spesso cooptata dall'alto con posti sicuri in lista, e le nuove leve elette tramite le primarie.
Non devono stupire in tal senso gli attacchi alle primarie stesse, colpevoli di aver portato in Parlamento candidati inesperti, troppo emotivi, incapaci di resistere alle pressioni di un popolo di simpatizzanti, a dire di qualcuno, troppo umorale e troppo prono a inchinarsi dinanzi al mito di turno, con espliciti riferimenti a Rodotà.
Sono sintomatiche a tale proposito le parole dell'ex-presidente del Partito Demcoratico, Rosy Bindi:
Che noi avessimo, e abbiamo bisogno tuttora, di un rinnovamento della classe dirigente, è fuori discussione. Che il modo per ottenere il risultato fosse quello che ha realizzato Bersani, mi ha trovato profondamente contraria da molto tempo. Ma soprattutto abbiamo portato in Parlamento, con le primarie, alcune persone che in questi giorni hanno dimostrato di non avere consapevolezza del proprio compito, in un momento in cui va rilanciato il ruolo del Parlamento.
La reazione della Bindi non può che essere letta come un'autodifesa: dinanzi al nuovo che avanza, una dirigenza senza più alcun occhio al mondo non può che sperare in una chiusura che consenta un'autoperpetuazione dei ruoli di comando, contando tuttavia su clientele e voto di bandiera via via in esaurimento.
Dall'altra parte la linea dei giovani del partito, ben rappresentati in questi ultimi giorni dalle figure di Civati (giovani anagraficamente parlando) e di Mineo (giovani politicamente parlando), tra i pochi che sono stati in grado di mantenere il contatto con gli elettori anche dopo gli incresciosi eventi di Montecitorio.

La critica rivolta dalla Bindi ai parlamentari eletti con le primarie, sia nelle sue parole esplicite che soprattutto in quelle sottintese, ha dell'incredibile e - in giornate come queste - quasi dell'osceno.
Si rimprovera ai parlamentari della generazione di Twitter e Facebook di saper pensare solo in funzione degli umori della propria base, di non saper seguire una linea politica coerente e a lungo termine, di pensare in ultima analisi alla soddisfazione immediata del proprio elettorato.

Sarebbero anche critiche sensate, se non fosse invece una gigantesca, mistificante strumentalizzazione, e ciò appare tanto più vero se si considerano le differenti defezioni nei casi delle votazioni che hanno visto bruciarsi Marini e Prodi.
Le due candidature sono state in primo luogo scelte in maniera differente: Marini è stato il frutto di un accordo privato di parte della dirigenza con Berlusconi, accordo i cui i grandi elettori del PD sono stati chiamati a dare ratifica e basta.
Prodi è stato liberamente votato dall'assemblea.
Ma la vera differenza è che chi ha silurato Marini lo ha fatto alla luce del sole, dicendolo, scrivendolo in rete e spiegando anche perché ha agito come ha agito. Dopo due giorni, ancora non è venuto fuori un solo nome di coloro che hanno tradito Prodi.
In entrambi i casi si è andati contro le linee imposte dal partito, ma in un caso si è risposto a viso aperto dinanzi alla sollevazione della base, nell'altro si è invece consumato un parricidio nell'ombra. Come non vedere le differenze?

Chi ha ceduto alla piazza e non ha votato Marini ha forse interrotto qualche abile manovra politica? Se Marini fosse stato eletto Presidente della Repubblica il PD avrebbe messo a segno qualche colpaccio politico che ne avrebbe assicurato il successo elettorale o la realizzazione del programma politico? Rispondere alle istanze della piazza disobbedendo alla linea ha interrotto qualcosa?
Forse sì, ma la base non ha il diritto di saperlo, soprattutto in un momento in cui la fiducia nel partito è ai minimi?
Ecco in cosa la Bindi sbaglia - a pensare bene - o rimescola le carte: il filo diretto con gli elettori, essere parlamentari che votano con il cellulare o con Twitter acceso non significa mancare di visione strategica, non significa essere incapaci di scontentare la base.
Significa piuttosto comunicare, significa spiegare, significa saper trasmettere un messaggio di vicinanza e comunione anche quando si deve andare contro i desideri degli elettori, significa saper dire perché si stanno compiendo degli atti apparentemente incomprensibili e rassicurare un popolo deluso che ogni azione, ogni voto, è fatto per loro e per il Paese.
Invece ci si ritrova ancora a non sapere perché Rodotà non aveva le caratteristiche adatte per essere Presidente della Repubblica secondo il PD, o per meglio dire per quelle aree del PD che si sono opposte alla sua nomina.

Lo scontro che si produrrà nel prossimo congresso - con l'augurio che sia prima dell'estate - sarà proprio tra queste due forme di partito, l'una aperta, fatta di comunicazione e trasparenza di intenti, e l'altra chiusa, vocata solo alla cooptazione dall'alto e alla perpetuazione del potere.

giovedì 18 aprile 2013

Flussi elettorali 2008-2013: il caso di Pordenone

Stemma del comune di Pordenone

Il 21 e 22 aprile 2013 si svolgeranno le elezioni regionali per il rinnovo dell'amministrazione della Regione Friuli Venezia Giulia, una delle cinque regioni italiane a statuto speciale.
Pur se messa parzialmente in ombra dalle grandi questioni di politica nazionale legate alla mancata formazione del Governo e all'elezione del nuovo Presidente della Repubblica, queste consultazioni sono in realtà da considerarsi un appuntamento molto importante: regione tradizionalmente di destra, che solo la figura di Illy in passato riuscì a colorare di rosso, prima regione italiana in assoluto ad avere un Presidente leghista, eppure conquistata dal centrosinistra alle ultime politiche per una manciata di voti, oggi è contesa come non mai da centrodestra, centrosinistra e MoVimento 5 Stelle.
Saranno confermati i sondaggi che hanno visto negli ultimi tempi un forte recupero del centrodestra? Riuscirà Deborah Serracchiani a passare dal ruolo di giovane promessa a quello di vera figura politica di spicco e carisma nel Partito Democratico? Il M5S conquisterà la sua prima regione, dopo il grande exploit delle regionali?

Per tentare di dare una risposta anche parziale a questa domanda, si è proceduto ad effettuare un'analisi dei flussi elettorali in uno dei principali comuni della regione, Pordenone, confrontando i risultati delle elezioni politiche 2008 con quelli delle elezioni politiche 2013, relativamente alla Camera dei Deputati.

Risultati elettorali a Pordenone
(elezioni politiche 2008 - Camera)

Risultati elettorali a Pordenone
(elezioni politiche 2013 - Camera)

Le due tabelle sopra riportate contengono i risultati delle politiche '80 e '13 nella città di Pordenone suddivise per seggio.
Per predisporre i dati all'analisi statistica, sono state compiute due operazioni: la prima consiste nella tracciatura non solo dei voti validi, ma anche del cosidetto partito dell'astensione, formato dall'insieme delle schede bianche, nulle, contestate e dei non votanti. Tale operazione è stata fatta per poter inserire anche il blocco dell'astensione nell'analisi e poter osservare quindi non solo i flussi di voto tra un partito e l'altro, ma anche quelli riguardanti, in entrata e in uscita, l'area del non voto.
La seconda operazione, finalizzata ad analizzare il voto giovanile, è consistita nell'introdurre un partito fittizio ai dati del 2008, il partito dei nuovi votanti ottenuto semplicemente inserendo la differenza tra i componenti di ciascun seggio tra il 2013 e il 2008, ovviamente solo nel caso in cui tale differenza sia positiva. Si tratta naturalmente di una forte approssimazione del reale voto giovanile, non ultimo per via del fatto che i nuovi voti possono essere dovuti anche a fenomeni di immigrazione, ma ai fini dell'analisi il risultato può comunque essere considerato valido.

A partire dai dati grezzi, sono state poi eseguite alcune operazioni di pulizia del dato.
In primo luogo sono state rimosse le sezioni ospedaliere, ovvero la 24, la 25 e la 50. Successivamente sono state rimosse tutte quelle sezioni in cui si è verificata una variazione della composizione sopra una soglia di riferimento fissata al doppio della deviazione standard della composizione dei seggi, e attraverso tale operazione sono state eliminate le sezioni 13, 21, 30 e 45.
Il campione è così passato da 52 a 45 sezioni; si tratta - ma sarebbe stato lo stesso anche senza questa operazione - di un numero piuttosto basso, che non consente ad eventuali anomalie locali di essere appieno assorbite dall'analisi statistica; si tratta di un'approssimazione di cui tenere conto nell'analisi complessiva ma che all'atto pratico non inficia la validità generale dell'analisi.

Successivamente sono stati accorpati tutti i partiti che non hanno ottenuto risultati rilevanti, fissando all'1% (soglia comprensiva del partito del non voto) il limite sotto il quale operare l'aggregazione.
Per quanto riguarda il 2008 sono stati in tal modo unificati Sinistra Critica, Partito Socialista, Grilli Parlanti, Per il Bene Comune, Partito Liberale Italiano, Aborto? No grazie, Forza Nuova, Partito Comunista dei Lavoratori e Unione Democratica dei Consumatori.
Per ciò che concerne invece il 2013 sono stati raggruppati Forza Nuova, Centro Democratico, Futuro e Libertà per l'Italia, Moderati Italiani in Rivoluzione, Grande Sud e La Destra.

Rielaborazione dati 2008

Rielaborazione dati 2013

Le tabelle qui riportate riepilogano le aggregazioni dei partiti per le due elezioni di riferimento, e riportano i dati elettorali una volta ripuliti e pronti per l'analisi.

È stata eseguita una regressione lineare utilizzando il software R sia per individuare i flussi di voto dal 2008 al 2013.

Flussi di voto 2008 --> 2013

I dati della tabella finale, pur con i limiti derivanti dallo scarso numero di sezioni, certificano il grande successo del MoVimento 5 Stelle e l'affanno di PD e PdL: i democratici mantengono poco meno dei due terzi del proprio elettorato, con dispersioni verso i grillini, Ingroia e Scelta Civica (curiosamente gli interscambi con SEL sono stati invece molto limitati). Al tempo stesso riescono a raccogliere voti in libera uscita dall'UdC, dalla vecchia Sinistra Arcobaleno e dall'Italia dei Valori.
I berlusconiani invece confermano appena il 40% circa dei propri voti, anche se va osservato che intorno al 15% dell'elettorato del PdL lascia il partito ma resta all'interno della coalizione di centrodestra. Da notare un 10% in fuga verso Giannino, e quasi il 20% che invece si rivolge a Mario Monti. Al contrario, il PdL riesce a raccogliere voti dalla Lega Nord e dalle formazioni minori.
Proprio la Lega appare oggetto di una vera disfatta: appena il 18% dei votanti del 2008 conferma la propria scelta, con una massiccia fuga verso il MoVimento 5 Stelle e in subordine il PdL, senza trascurare una fortissima componente di astensionismo.

Flussi in uscita naturalmente non ve ne possono essere per il MoVimento 5 Stelle, ma diventa interessante osservare quanto è in grado di recepire dalle altre formazioni: alla fine - considerata anche la comunanza tra i due elettorati - non stupisce che oltre il 50% di chi nel 2008 aveva votato IdV si sia gettato su Grillo, così come il 20% di chi aveva scelto Sinistra Arcobaleno; rimarchevole poi il 37% dei leghisti che ha scelto M5S, ma anche il 28% di chi nel 2008 aveva scelto UdC, mentre alla fine il PD, con appena un 10% dell'elettorato 2008 passato a Grillo, è apparso alla fine tra i partiti più impermeabili agli assalti a cinque stelle, almeno a Pordenone.

È difficile trarre da questi dati una previsione sulle regionali 2013, perché il voto della prossima domenica subirà l'impatto emotivo dell'elezione del Presidente della Repubblica; la lotta per la regione si mostra tuttavia quantomai aperta: lo smottamento elettorale provocato dall'ingresso in gioco del M5S ha in qualche modo scompattato i blocchi elettorali, consentendo passaggi anche significativi di voti da uno schieramento all'altro.
Voti freschi, non ancora stabilizzati e quindi a loro volta particolarmente contendibili.

giovedì 11 aprile 2013

Alla riscoperta della Terza Mozione

Ignazio Marino (PD)

La recente vittoria del senatore chirurgo del Partito Democratico, Ignazio Marino, alle elezioni primarie per la candidatura a Sindaco della città di Roma ha riportato in auge il personaggio, le sue idee ed in particolare i temi della sua famosa Terza Mozione, con cui nel 2009 aveva tentato la scalata ai vertici del Partito Democratico, sfidando Bersani - poi vincitore - e Franceschini.

È infatti proprio grazie alle idee e alla visione di Ignazio Marino che si può arrivare a comprendere meglio il personaggio e le sue caratteristiche come politico, e nell'evidenziare quale sarebbe potuta essere la storia del PD nazionale in caso di una sua vittoria, arrivare anche a farsi un'idea di quale potrà essere l'immediato futuro della capitale nel caso - ad oggi non troppo probabile a dire il vero - di una sua affermazione alle elezioni amministrative.

Nel 2009 il PD era ancora diviso - ben più di oggi - tra ex-DS ed ex-DL, e la Terza Mozione era l'unica che in qualche modo superasse questa dicotomia di fondo. Non tentava di costruire una sintesi tra le due anime del partito, né si schierava apertamente con l'una o con l'altra, ma bensì tentava di offrire al Partito Democratico una struttura e una linea interamente nuove, allo scopo di costruirne un'identità e una linea politica che, pur facendo riferimento alle esperienze del passato, fosse pienamente proiettata al futuro.
Parole come flexsecurity, salario minimo garantito, peer review, no al nucleare, unioni civili, testamento biologico, televisione pubblica senza ingerenze partitiche, sono stati i cavalli di battaglia della Terza Mozione, via via marginalizzati in un PD bersaniano ancora troppo prigioniero delle logiche del ventennio berlusconiano e incapace di proporsi con convinzione e sicurezza su questi temi.

Temi accaparrati da altre formazioni politiche, in principal modo il MoVimento 5 Stelle: e osservando il successo elettorale della formazione grillina, si può oggi ben dire che la Mozione Marino fu un vero e proprio capitale politico e di consenso, tristemente dilapidato da un partito troppo preso a discutere se parlare di centrosinsitra o centro-sinistra e ormai da una generazione impegnato in una vana rincorsa al centro, rincorsa che al di là delle mutazioni ideologiche non ha neppure prodotto l'atteso risultato in campo elettorale.
Non stupisce che lo stesso Grillo attaccò ai tempi Marino solo sul piano personale, asserendo della sua compromissione con il sistema partitico, e mai sul piano politico... anzi ereditandone le battaglie dopo che il PD, optando per Bersani, preferì accantonarle.

La vera rivoluzione di Marino era però una rivoluzione di metodo prima ancora che di merito. Non per nulla la parola chiave della sua campagna elettorale del 2009 era laicità. Laicità intesa nella comune accezione di attenzione ai diritti civili, senza dubbio, ma laicità come metodo di conduzione della vita del partito: ascoltando le parole di Marino dell'epoca, si poteva sognare un partito capace di discutere serenamente su ogni punto ma di parlare con una voce sola, in grado di darsi regole e di rispettarle senza bisogno di deroghe per qualche maggiorente troppo potente, capace con umiltà di coinvolgere la propria base sulle questioni in cui la classe dirigente non era in grado di trovare un accordo attraverso - linea poi portata avanti senza troppo successo anche da Civati - i referendum aperti agli iscritti, finalmente valorizzati in un vero ruolo partecipativo e decisionale.
Non è andata così, e per quanto la gestione Bersani abbia avuto diversi meriti, resta negli occhi l'immagine di ciò che il PD sarebbe potuto essere.

In realtà la vittoria di Marino nel 2009 era impossibile non solo per tutti gli interessi più o meno clientelari a difesa della classe dirigente PD, ma anche per quello stesso sentimento identitario che così spesso ha salvato la sinistra italiana dalla débâcle più assoluta: per molti elettori Bersani - e in misura minore Franceschini - rappresentavano una bandiera, l'identità stessa del partito.
Sentimento spesso ammirevole, quando il senso di identità è contaminato dalla paura di cambiare si trasforma in identitarismo e in ultima analisi in conservatorismo, un anatema per un partito progressista, in cui l'attenzione al futuro dovrebbe essere uno degli assi portanti.

Oggi Roma ha la possibilità di scegliere Ignazio Marino come prossimo sindaco, di capitalizzare finalmente il patrimonio politico rappresentato da quest'uomo e dalle sue idee, di inaugurare un metodo di gestione della res publica veramente innovativo, partecipato ad ogni livello ma - a differenza del M5S - dotato a sua volta di regole chiare e trasparenti nella sua modalità operativa.
La lotta di Marino per il Campidoglio non è solo un'opportunità per Roma: può significare la definitiva consacrazione o al contrario la cancellazione di una nuova sinistra in Italia alternativa al neoliberismo renziano.
L'occasione è vitale, la lotta difficilissma, la posta in palio più alta che mai. Sommessamente dalla città di Roma si deciderà la politica italiana - e più modestamente il futuro della sinistra italiana - dei prossimi anni.

venerdì 5 aprile 2013

Primarie romane, candidati a confronto

Il Municipio di Roma

Domenica 7 aprile si terranno le primarie del centrosinistra per la corsa alla poltrona di sindaco di Roma, dopo la bruciante sconfitta del 2008 subita da Rutelli che ha consegnato, per la prima volta dalla fine della Prima Repubblica, la città al centrodestra nella persona dell'attuale sindaco Alemanno.
Considerata una corsa scontata fino a non molti mesi fa, la corsa per il Campidoglio appare ora invece più incerta che mai in virtù delle ambizioni del MoVimento 5 Stelle, che dopo lo splendido risultato conseguito alle elezioni politiche e a causa del cosiddetto "effetto Parma" che potrebbe convogliare sul suo candidato in eventuale ballottaggio i voti del polo escluso dal secondo turno, ha ora serie mire di conquista sulla poltrona di primo cittadino della Capitale alle amministrative di fine maggio.

Il centrosinistra tenta di reagire attraverso le primarie, sperando in una sorta di campagna elettorale prolungata che prolunghi l'onda di visibilità dei candidati e della coalizione in generale avvantaggiandola in termini di consensi alle urne. Le primarie, oltre che il candidato sindaco, riguarderanno anche - per la prima volta - la scelta dei candidati alla presidenza dei singoli municipi, in un continuo processo di ampliamento della partecipazione dell'elettorato e delle offerte di democrazia diretta offerte dalla coalizione progressista.

Saranno alla fine sei i candidati alle primarie, dai nove previsti fino a non molto tempo fa.
Rispetto alle intenzioni iniziali, infatti, si sono registrate dapprima le defezioni di Umberto Marroni e Luigi Neri, e successivamente quella dell'imprenditore Alfio Marchini, ritiratosi pur avendo provveduto a depositare le firme necessarie.

Nella serata di venerdì 5 aprile i sei candidati rimasti in lizza saranno ospiti negli studi di Sky TG24 per un confronto programmatico prima del voto domenicale.

Ignazio Marino (PD)
Il primo candidato alle primarie è il Ignazio Marino, classe 1955, chirurgo specializzato in trapianti di fama mondiale e senatore dal 2006, dapprima come indipendente nei DS e successivamente come membro effettivo del PD. Ha corso le primarie del 2009 per la segreteria nazionale del partito, classificandosi terzo dopo Bersani e Franceschini, ed è attualmente membro della Commissione Igiene e sanità e presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sull'efficacia e l'efficienza del Servizio Sanitario Nazionale. Si è sempre contraddistinto per la sua visione laica della politica e sono note in particolare le sue battaglie sul testamento biologico; ha ottenuto per queste primarie l'appoggio esplicito di Nichi Vendola, malgrado la presenza di un candidato di SEL nella competizione.

David Sassoli (PD)
Classe 1956, europarlamentare e capogruppo a Strasburgo, il secondo candidato è il giornalista David Sassoli, nato a Firenze ma romano d'adozione, già vicedirettore del TG1, presidente dal 2004 al 2007 del sindacato dei giornalisti romani, e cofondatore di Articolo 21, importante movimento in difesa della libertà di stampa. Tra le sue collaborazioni televisive spiccano quelle con Michele Santoro, a Il rosso e il nero e a Tempo Reale nei primi anni '90. Proprio sul tema della libertà di stampa si dipana buona parte della sua attività politica, e si ricordano in questo senso le sue battaglie contro gli svariati tentativi di legiferazione in materia di intercettazione dei governi presieduti da Silvio Berlusconi.

Paolo Gentiloni (PD)
Malgrado sia indicativamente della stessa età di Marino e Sassoli, il curriculum politico di Paolo Gentiloni, terzo candidato, è di gran lunga più consistente. Portavoce del sindaco di Roma, responsabile della comunicazione del comune, assessore al Turismo con delega al Giubileo, poi nel 2001 il salto alla politica nazionale con l'elezione a deputato. In tale veste presiede la Commissione di Vigilanza RAI, e ricopre poi il ruolo di Ministro delle Comunicazione del Governo Prodi II dal 2006 al 2008. Gentiloni, generalmente considerato uno dei fedelissimi di Walter Veltroni, appartiene all'ala più moderata e cattolica del Partito Democratico.

Patrizia Prestipino (PD)
Curriculm di tutto rispetto anche per Patrizia Prestipino, una delle due donne in gara, anche se tutto nelle istituzioni locali. La Prestipino, infatti, è stata presidente e consigliere del Municipio XII, e successivamente assessore provinciale con delega a sport, turismo e giovani. A queste attività ha affiancato una militanza nelle associazioni animaliste (ex dirigente dell'ENPA di Roma) e di volontariato (attività di insegnamento della lingua italiana ai figli dei carcerati). È uno dei membri fondatori del Partito Democratico, di cui è membro dell'assemblea nazionale.

Gemma Azuni (SEL)
Gemma Azuni, seconda donna in corsa, è anche il primo candidato non espressione del Partito Democratico, militando infatti in SEL. Si tratta anche della candidata più anziana, essendo nata nel 1948. È attualmente consigliere comunale a Roma, dopo un passato come consigliere e poi presidente di municipio. Dal punto di vista politico, la sua attività si è prevalentemente incentrata sull'organizzazione dei servizi sanitari, scolastici e sociali, sulla questione femminile e sui temi del lavoro e della tutela dell'ambiente.

Mattia Di Tommaso (PSI)
Il sesto ed ultimo candidato è anche il più giovane, Mattia Di Tommaso, nato nel 1985, laureato in giurisprudenza e militante PSI. Malgrado la giovane età ha già maturato notevoli esperienze nel campo del volontariato: nel 2012 ha partecipato ad una missione umanitaria incentrata sulla gestione degli orfanotrofi in Kosovo patrocinata dall'UNICEF e dai Ministeri degli Esteri e della Difesa italiano. È inoltre tra i fondatori di "SOS Diritti e Legalità", associazione no-profit che offre consulenza legale gratuita ai cittadini. È inoltre membro del Direttivo del Forum dei Giovani della Regione Lazio.

martedì 2 aprile 2013

Lettera aperta a Pierluigi Bersani

Pierluigi Bersani (PD)

Spett. Segretario Bersani,

alle ultime elezioni politiche il Partito Democratico è risultato il primo partito del Paese, il centrosinistra la coalizione maggioritaria in Italia, eppure il centrosinistra non è riuscito a vincere davvero la competizione elettorale.
L'elettorato progressita è apparso quanto mai demotivato, stanco, ancorato ormai alla fedeltà alla bandiera unitamente all'incapacità di fare breccia di altre forze politiche; il PD non è riuscito a far sentire il proprio popolo orgoglioso del proprio partito.
Una campagna elettorale indegna, adagiata sulla falsa convinzione di aver già vinto, lo scandalo MPS, un anno di sostegno ad un governo sì di emergenza nazionale, ma sostanzialmente di destra, hanno portato il PD a rischiare di perdere elezioni che si potevano - e quel che è peggio si dovevano - vincere.

Lo confesso, il giorno dopo la proclamazione dei risultati, non avevo molta fiducia sulla strategia dei maggiorenti del partito, né sulla Sua capacità di imporre una linea chiara e definita. Mi immaginavo che dietro la parola "responsabilità", così tristemente abusata in questi anni, si celasse l'ultima e definitiva alleanza con il PdL di Berlusconi, Alfano, Bondi, Cicchitto, La Russa e Santanché, e si mettesse nelle mani della destra la golden share del futuro esecutivo, in cui una marionetta democratica avrebbe via via svenduto quanto resta della sinsitra italiana sull'altare della conservazione del potere e delle poltrone.

Le sirene in tal senso non sono mancate, ma con piacere e sorpresa ho osservato il PD tenere una linea completamente differente, una linea di totale chiusura al PdL e per forza di cose, nella ricerca di numeri per governare, di apertura al M5S, forza più affine dal punto di vista programmatico e - almeno fino alle fasi più insultanti dell'ostruzionismo di Grillo - più qualificante agli occhi dell'elettorato di sinistra.
Il PD non si è improvvisamente risvegliato. Non ha improvvisamente preso la difesa dei più deboli e dei meno tutelati. Ma con questo gesto di semplice coerenza, con una proposta programmatica finalmente semplice e chiara, ha risvegliato un barlume di orgoglio nel popolo di sinistra. La resistenza alle invocazioni di Berlusconi, l'apparente umiliazione dinanzi al M5S per metterlo dinanzi alla responsabilità di non avere un governo in carica, la scelta di personalità come Grasso e Boldrini alla Presidenza delle Camere, la presentazione di un programma finalmente efficace e di facile comprensione, tutti questi gesti sono stati finalmente capiti e apprezzati dalla base del partito e dell'area politica; sono stati gesti di cui andare fieri, gesti che se fatti in campagna elettorale forse avrebbero fermato o quantomeno limitato l'emorragia di voti che ha colpito il partito.

Il fallimento - o mancato successo - del Suo tentativo di formare un Governo ha tuttavia in qualche modo rimesso in gioco la Sua linea, e negli ultimi giorni hanno ripreso quota le ipotesi di un accordo con il PdL, un accordo che vedrebbe sul tavolo anche il Quirinale, come se la scelta di un Capo dello Stato potesse essere oggetto di baratto - e anche se lo fosse, come se fosse pensabile barattare un settennato della carica più alta dello Stato con un governo zoppo e a tempo.
Manovre di palazzo di questo genere sarebbero forse lo schiaffo finale ad una base che già si sente poco rappresentata - non in termini di democrazia interna, dove il PD anzi avrebbe da insegnare ad altri, ma proprio in termini di indirizzo politico. È naturale che la scelta del Presidente della Repubblica debba essere un momento il più possibile condiviso con l'intero arco politico, ma è talmente palese che un accordo con il centrodestra sarebbe volto unicamente alla salvaguardia dell'imputato Berlusconi, da rendere improponibile una simile strada. Al tempo stesso, poiché sono il Parlamento e una delegazione degli enti locali ad eleggere il Capo dello Stato, è altresì vero che il centrosinistra possiede la maggioranza relativa, quasi assoluta, dei "grandi elettori", e spetta quindi al centrosinistra l'onere e l'onore di indicare, secondo la propria sensibilità, personaggi degni di ricoprire questa carica, senza inseguire ad ogni costo accordi svilenti per il centrosinistra stesso ma più che altro per l'istituzione quirinalizia.
Al tempo stesso, qualsiasi accordo di governo non dovrebbe tenere conto di logiche spartitorie tali per cui una parte politica consente la realizzazione di qualcosa di sgradito in cambio dell'analoga disponibilità delle altre parti. Arrivare ad un accordo di questo genere con il PdL significherebbe snaturare qualsisi ideale in tema di giustizia il PD possa avere, nonché la destrutturazione finale del sistema giudiziario del Paese. Accordo di governo può e deve significare la mera realizzazione di quanto è di per sé condiviso dalle parti in causa. Se non vi è accordo su nulla, allearsi è inutile.

Né dovrebbero far presa i richiami alla responsabilità da parte di chi quotidianamente gioca allo sfascio del Paese. In nome di quale senso di responsabilità il PD dovrebbe permettere un salvacondotto politico di qualsiasi genere ai problemi giudiziari di Berlusconi? Per avere un Governo in cui per di più qualsiasi legge dovrebbe essere trattata punto su punto con gli altri partiti? In cui il proprio programma di governo ne uscirebbe completamente snaturato?

Tenga dritta la barra, Segretario, come ha fatto in questi giorni e come vorremmo avesse fatto in campagna elettorale. Non se ne pentirà.
Non mercifichi la Presidenza della Repubblica, non rinunci alla possibilità di esprimere dei grandi nomi per quella carica, nomi che chiunque debba vergognarsi di non votare.
Il centrosinistra è maggioranza assoluta alla Camera e relativa al Senato. Questo significa che non può far passare autonomamente le proprie proposte, ma significa anche che nessuna legge può essere approvata senza l'avallo del centrosinistra: non ceda dunque sugli otto punti del Suo programma, costruisca su di essi la base della prossima campagna elettorale approfittando di questo periodo di interregno per declinarli in proposte di legge compiute e formalizzate. Non rinunci all'idea del maggioritario uninominale, da sempre cavallo di battaglia del PD.
Porti avanti le battaglie del centrosinistra, qualsiasi sia il Governo in carica, quello dimissionario di Monti o una qualsiasi compagine che dovesse strappare la fiducia alle Camere. Né il PdL né il M5S si sono dimostrati interessati a trattare, sui punti da loro considerati importanti. Forse per loro il richiamo alla responsabilità non si applica, o forse le battaglie del centrosinistra sono meno importanti? Non ceda, non si arrenda, non si abbandoni alle fronde interne di chi, nel nome della poltrona, intende tradire ancora una volta il mandato degli elettori.

Continui, come ha fatto in queste ultime settimane, a farci sentire orgogliosi di essere di sinistra.
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