mercoledì 28 marzo 2012

Dati AGCom febbraio 2012

Logo dell'AGCom

La prosecuzione dell'avventura politica del Governo Monti sta modificando lentamente ma profondamente lo scenario mediatico italiano, mai come in questo periodo preda di andamenti oscillatori e altalenanti quasi fosse alla ricerca di un punto di equilibrio, perduto dopo le dimissioni di Silvio Berlusconi.

I dati relativi al mese di febbraio 2012, da pochi giorni pubblicati sul sito dell'AGCom, evidenziano infatti una sorta di ritorno al passato, una polarizzazione in nuce in funzione dei canali televisivi piuttosto simile, per certi aspetti e con le dovute differenze, a quella della Prima Repubblica.
Prima ancora di scomporre nel dettaglio i dati di presenza politico-istituzionale nei telegiornali, è tuttavia significativo il dato totale delle ore che le principali testate hanno dedicato alla politica: il valore di 114 ore complessive è estremamente basso, persino per un mese di appena 29 giorni. Se da un lato è vero che il dibattito politico non ha vissuto momenti di particolare escalation, è anche vero che il mese è stato disseminato di eventi di politica giudiziaria, dalla sentenza sul caso Mills ai vari scandali in Puglia e in Lombardia, per non parlare del terremoto Lusi in casa democratica. Lo scarso rilievo mediatico offerto a simili aspetti è probabilmente uno dei maggiori esempi di autoconservazione del ceto politico italiano e della volontà di minimizzare eventi in grado di gettare cupe ombre sull'intero agone politico.

Dati AGCom febbraio 2012

Dalla tabella dei dati grezzi è già possibile individuare un netto scostamento rispetto al mese di gennaio: se il tema portante del primo mese del nuovo anno era stato l'assoluto dominio del Presidente del Consiglio nella scena mediatica e una chiusura al solo centrodestra del dibattito politico, il mese di febbraio vede un vero e proprio sblocco di questa situazione. Da un lato si assiste ad una lieve discesa dell'esecutivo (comunque dal 42% al 40% tra Presidente del Consiglio e Ministri, un tempo altissimo in linea con i peggiori eccessi berlusconiani), dall'altro il dibattito politico si accentra nei due maggiori schieramenti, PdL e PD, lasciando ai margini le altre formazioni politiche.

Dati AGCom febbraio 2012 aggregati per
Istituzioni - Maggioranza - Opposizione

Il primo effetto di questo ritrovato bipolarismo mediatico sta nella brusca diminuzione delle formazioni di opposizione al Governo Monti, ed in particolar modo della Lega Nord, relegata a ruoli marginali dopo anni di protagonismo televisivo. Il tonfo per la formazione di Bossi è notevole, circa il 60% in meno rispetto a gennaio, mentre le forze di opposizione nel loro complesso calano dal 14% al 7%.
In calo anche la quota istituzionale: a fronte di un moderato incremento del Governo, calano tutti gli altri esponenti di questa categoria. Particolarmente significativo è la diminuzione della quota dedicata alla UE, che dopo mesi di presenza ad alti livelli al culmine della crisi torna sostanzialmente alla consueta irrilevanza nello scenario telegiornalistico italiano.
Di conseguenza, aumenta sostanzialmente la quota destinata alla maggioranza, forte dell'incremento dei due partiti principali e anche di quello - più modesto - del Terzo Polo.

I telegiornali più favorevoli alle istituzioni sono MTVFlash e TG1; la maggioranza trova maggiori spazi su TG4 e Studio Aperto, mentre l'opposizione ottiene le sue migliori performance su TG1 e Rainews.

Dati AGCom febbraio 2012 aggregati per
area politico-culturale

Rispetto al mese di gennaio, si assiste ad un sostanziale riequilibrio tra i poli, o meglio ad una riduzione dello squilibrio: se infatti prendendo meramente i valori di centrodestra e centrosinistra la differenza si attesta sempre attorno ai tre punti percentuale, è il valore delle formazioni di destra - sostanzialmente la Lega Nord - che cala nettamente, passando dal 21% al 7%.
Il Terzo Polo evidenzia una lievissima ascesa, mentre la sinistra radicale extraparlamentare mantiene il suo ruolo di marginalità nel panorama mediatico italiano.
In generale anche questo istogramma mostra un accentramento televisivo intorno alle due principali compagini; contrariamente al passato, tuttavia, questa volta i due poli appaiono sostanzialmente appaiati, e dal punto di vista della par condicio questa è forse la novità più rilevante del nuovo corso politico.

L'opposizione leghista da destra viene premiata principalmente sul TGLa7 e su Rainews24, laddove il centrodestra governativo si impone principalmente su Studio Aperto e sul TG4. Il Terzo Polo di Fini, Casini e Rutelli trova maggiori spazi sul TG2 e su MTVFlash mentre il centrosinistra appare maggioritario su Rainews24 e Rainews.

Dati AGCom 2012 aggregati per mese

Dal dettaglio dei dati per partito si nota come la formazione che ha vissuto il maggiore avanzamento sia il Partito Democratico, in salita del 7%. Sale anche il PdL, che supera il Governo e si inserisce come seconda forza mediatica dopo il premier Monti. Dietro al PD, tuttavia, il vuoto. Nessun'altra forza salvo il Presidente della Repubblica supera il 5% del tempo complessivo, evidenziando un appiattimento senza precedenti nel panorama televisivo italiano, una deriva che inoltre - malgrado l'eterogeneità delle forze di maggioranza - assomiglia pericolosamente all'imposizione di un pensiero unico dal momento che le forze privilegiate dagli ambienti televisivi appartengono tutte o al Governo o alla maggioranza che lo sostiene.

Dati AGCom 2012 aggregati per
Istituzioni - Maggioranza - Opposizione

Dati AGCom 2012 aggregati per
area politico-culturale

L'evoluzione temporale dei dati evidenzia sia fattori di squilibrio che di riequilibrio rispetto al mese precedente: da un lato infatti cala la quota dedicata all'opposizione al Governo Monti, eliminando di fatto qualsiasi pluralismo dai telegiornali, dall'altro diminuisce nettamente il dominio del centrodestra in televisione, a fronte di una ritrovata eguaglianza tra i poli; inoltre, lo strapotere mediatico del Presidente del Consiglio e del Governo si attenua rispetto ai momenti più crudi della crisi. È tuttavia evidente come l'attuale situazione sia ricca di storture, figlia di un momento politico anomalo in cui tutti i partiti dominanti nel Paese si ritrovano alleati in un governo tecnico. Per certi versi un'opposizione al lumicino è inevitabile considerata la composizione del Parlamento, tuttavia il progressivo accentramento del dibattito nei due partiti principali evidenzia una vera e propria occupazione dello spazio mediatico, che nulla ha da invidiare a quella berlusconiana... se non fosse che in questo caso è bipartisan.

A livello di aderenza alla par condicio accade così che il TG3, pur dando meno del 10% alle forze di opposizione, sia il miglior telegiornale del Paese, seguito dal TGLa7 e da Rainews. Fanalini di coda Studio Aperto, TG4 e Rainews24. Più di ogni altra cosa, tuttavia, emerge una profonda differenziazione tra i TG Mediaset e tutti gli altri. Se infatti in quasi ogni testata le istituzioni sono preponderanti, sui telegiornali del biscione sono le forze di maggioranza - e scendendo nel dettaglio quelle di centrodestra - a fare la parte del leone. Passato cioè il momento in cui Berlusconi era al potere, le tre reti Mediaset hanno semplicemente spostato il baricentro del proprio tempo politico dalle istituzioni al PdL, rendendo sempre più evidente un ruolo più propagandistico che di vero servizio pubblico.

giovedì 22 marzo 2012

Una via d'uscita per Bersani

Pierluigi Bersani (PD)

Mai come in questi ultimi giorni l'esistenza stessa del Partito Democratico rischia di essere messa in discussione.
Lo strappo - perché di strappo si parla - del Governo sull'annosa questione dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ha fatto letteralmente deflagrare il partito, più diviso che mai tra la sua anima filomontiana che fa capo all'area veltroniana e quella socialdemocratica le cui posizioni si possono riassumere nella visione di Stefano Fassina, responsabile Finanza Pubblica ed Economia Internazionale del partito.

Il principale oggetto del contendere è legato al reintegro a seguito dei licenziamenti per motivi economici; in primo luogo se possa o debba essere previsto dalla norma, ed in secondo luogo a chi spetti la valutazione sulla tipologia di licenziamento e quindi sulla tipologia di azione da intraprendere, se indennizzo o reintegro e nel primo caso l'ammontare della somma dovuta al lavoratore. Secondo la proposta del Governo la decisione spetta alle aziende, ovvero ad una delle due parti in causa, mentre l'anima più di sinistra del PD propendeva per lasciare la decisione ad una figura terza, in particolare al giudice del lavoro.

Le prime dichiarazioni a caldo dei membri delle due aree del PD sono state estremamente tranchant, lasciando quasi presagire una rottura che né lo spirito di appartenenza alla formazione né le parole del segretario, Bersani, avrebbero potuto ricomporre. Dopo una giornata i toni sono in parte mutati, ed il PD pare essersi schierato con compattezza sulla soluzione considerata più di sinistra, ma questa ritrovata unità non deve trarre in inganno.
Se infatti il Partito Democratico nella sua interezza può essere favorevole ad una modifica della riforma del mercato del lavoro ed anche impegnarsi seriamente per ottenerla, un esito negativo di questa operazione riaprirebbe le crepe nella facciata del partito emerse con tanta chiarezza al momento del primo annuncio della riforma. Se si arrivasse ad un voto sull'attuale testo, è infatti difficile credere che il PD saprà votare compattamente, in un senso o nell'altro.

Il fenomeno paradossale è che per alcuni esponenti democratici la questione dirimente non risiede tanto nei diritti dei lavoratori o delle aziende, ma nella collocazione politica futura di quello che oggi è il principale partito di centrosinistra. Scambiando la causa con l'effetto, non sono pochi i parlamentari del PD che oggi voterebbero contro o a favore della riforma in virtù di quella che ritengono debba essere la collocazione del partito nelle future competizioni elettorali, se il PD debba essere un partito di centro alleato con il Terzo Polo oppure il perno di un centrosinistra in stile foto di Vasto. Il vero rischio, tuttavia, è che il partito stesso esploda, almeno a livello di classe dirigente, scindendosi - pur con qualche rimescolamento - nelle due componenti che solo pochi anni prima si erano fuse dandogli vita.

In tutto questo si staglia la figura di Bersani, segretario del PD e come tale tenuto a curarsi tanto di rispondere ai milioni di elettori che nel 2008 hanno scelto di dare fiducia al centrosinistra, quanto del partito stesso. A differenza di episodi del passato in cui singoli esponenti hanno abbandonato la formazione, la situazione attuale rischia di lacerare il partito in due tronconi, nessuno dei quali sia più in grado di contenere l'essenza del PD, decretando quindi il fallimento del progetto del partito e in generale di un progetto di centrosinistra italiano di stampo non comunista.
Se, come sembra, vi sono possibilità di modifiche alla proposta dell'esecutivo è bene che il PD si adoperi per ottenerle, ma al tempo stesso Bersani deve tenersi pronto a fronteggiare la possibilità di una crisi senza precedenti nel proprio partito, che si consumerà sicuramente se la via della trattativa con il Governo dovesse fallire.

Esiste, tuttavia, una mossa che il segretario del PD potrebbe usare per sparigliare le carte e volgere la partita a proprio favore e a favore del partito, una mossa che consiste di fatto con la più grande innovazione che la nascita del Partito Democratico ha portato alla politica italiana: le primarie.

Volete che votiamo la riforma del mercato del lavoro così come proposta dal Governo?
Volete che votiamo la riforma del mercato del lavoro così come proposta dal Governo se dovesse essere richiesto un voto di fiducia?

Con queste due semplici domande, da porre magari solo agli iscritti (la tessera dovrà pur servire a qualcosa), Bersani otterebbe solo vantaggi, rinforzerebbe la propria leadership e con ogni probabilità salverebbe il PD dallo sfascio a cui sarebbe probabilmente destinato in caso di mancata modifica della riforma.
Quando si parla di lacerazioine nel partito, in effetti, si parla in massima parte di dirigenza. Il popolo democratico, per quanto variegato, è molto più unitario di quanto si possa pensare. Per di più le elezioni primarie con il tempo sono diventate un tratto distintivo e identitario del partito, un motivo di orgoglio nel quale riconoscersi. Utilizzare lo strumento su un tema così delicato servirebbe a compattare l'elettorato PD persino se l'esito delle votazioni dovesse essere in bilico e l'elettorato diviso. Inoltre il vantaggio mediatico di non apparire come un partito che decide nel chiuso della propria torre d'avorio del destino di milioni di lavoratori sarebbe un impulso importante in vista dei prossimi appuntamenti temporali, e a maggior ragione in caso di termine anticipato della legislatura.
Al tempo stesso Bersani, sposando la posizione vincitrice delle primarie, diverrebbe di fatto inattaccabile. Inattaccabile dalle provocazioni esterne, che siano di appiattimento sulla linea della CGIL quanto di tradimento degli ideali della sinistra; ma si porrebbe inoltre come elemento super partes nelle lotte interne al partito, diverrebbe esecutore della volontà della base e come tale da parte in causa si trasformerebbe in custode del mandato degli elettori.
Infine, in caso di lacerazione del partito, la presenza di un'indicazione della base consentirebbe di dire chi è il PD e chi invece se ne è tirato fuori; chi ha tenuto fede al patto con gli elettori e chi, pur nel rispetto dell'assenza di un vincolo di mandato, se ne è discostato.

Servirebbe, certo, un atto di coraggio; servirebbe l'audacia di indire le consultazioni interne con la base per la prima volta proprio su un tema così spinoso, affrontare le accuse di non essere in grado di dettare una linea, di non saper trovare una sintesi delegando ogni cosa alla base. Eppure i vantaggi che ne scaturirebbero meriterebbero ampiamente un simile rischio. Sarebbe, per l'appunto, la mossa risolutiva, che permetterebbe al Partito Democratico di mantenere la propria identità e al tempo stesso aprire nuovi e graditi scenari di partecipazione diretta.
Bersani ci pensi.

martedì 20 marzo 2012

Grillo, la benzina e il populismo

Giuseppe Piero Grillo

Sicuramente una delle misure più detestate tra quelle intraprese dal nuovo Governo Monti è l'aumento delle accise sui carburanti, che ha portato a una nuova serie di aumenti nel prezzo alla pompa; unite ad una risalita del prezzo del greggio e all'inevitabile speculazione delle compagnie petrolifere e di distribuzione della benzina, le nuove tasse hanno portato a dei veri e propri prezzi record.
Ormai è praticamente scontato che il muro dei 2 €/l verrà infranto ben prima dell'estate, né si intravede una frenata dei prezzi nell'immediato futuro.

Gli aumenti della benzina, al pari di quelli sui generi alimentari, sono particolarmente odiosi perché si tratta molto spesso di una spesa non evitabile: se è vero che in diverse situazioni l'automobile può essere sostituita dai mezzi pubblici, è anche vero che la qualità di tali servizi non è in grado di ridurre in maniera significativa l'utilizzo delle auto; inoltre l'aumento dei prezzi della benzina ha ricadute negative sul costo finale di tutti i beni che necessitano di attività di trasporto.

Proprio per queste ragioni il tema è estremamente delicato, e se da un lato non dovrebbe essere oggetto di facili tassazioni al mero scopo di fare cassa su un bene de facto di prima necessità - senza peraltro che lo Stato offra alternative valide tramite treni o autobus - dall'altro non dovrebbe nemmeno essere oggetto di facile populismo, come purtroppo è invece stato per anni.

Il 5 maggio 2010 il quotidiano gratuito Metro intervistava il noto comico Grillo, e tra gli argomenti trattati figuravano le seguenti frasi shock in argomento carburanti.

Il carburante deve costare 10 euro al litro: questo è il prezzo giusto. Quello che raggiungerà nel giro di 5 anni, tanto vale che lo si definisca subito.

Dal prossimo anno raddoppieranno le macchine in circolazione che consumano la metà e le fonti alternative sarebbero, finalmente, concorrenziali rispetto all’oro nero.

Il testo originale dell'intervista non è più reperibile sul sito del quotidiano (il link fornito non è più attivo), ma sui siti e sui blog dell'epoca questi passaggi vennero riportati (si veda ad esempio EcoBlog) e ampiamente commentati.
Il comico genovese si era già caratterizzato in simili atteggiamenti nei confronti dei prezzi dei carburanti. Già nei suoi spettacoli in teatro e televisione (La benzina dovrebbe costare diecimila lire al litro e tu avere una macchina che con due litri fa cento chilometri. Il costo del tuo spostamento non cambia, è giusto?, tratta da Tutto il Grillo che conta) aveva esposto una simile opinione, sempre dettata da una matrice ambientalista.

Anche senza essere arrivati ai 10 euro, ma nemmeno alle 10.000 lire, vediamo oggi come quanto le parole di Grillo fossero in realtà una mera provocazione mediatica, comprensibile e anzi auspicabile nel suo ruolo di comico, molto meno in quello di front-man di un partito politico, il MoVimento 5 Stelle.


La posizione di Grillo sul tema dei carburanti di per sé non si discosta particolarmente da metodologie politiche effettivamente in uso su altri temi; il caso probabilmente più significativo è quello delle quote rosa: anziché attendere l'evoluzione della società in tema di parificazione uomo-donna e avere una maggiore presenza femminile nei posti chiave della vita pubblica, si impone una parificazione numerica in tali posti sperando in un effetto trainante nella struttura sociale del Paese.
Grillo propone un aumento shock del prezzo della benzina per spingere verso un rinnovamento del parco auto e sviluppi nel settore automobilistico che consentano di arrivare ad una situazione sostenibile.

Eppure l'attuale periodo mostra, e senza nemmeno arrivare ai prezzi indicati dal comico genovese, quanto questa strada sia in realtà impercorribile e al contrario quanto invece stia danneggiando l'economia del Paese.
È da rimarcare il fatto che Grillo non stia a sindacare su quale debba essere l'origine dell'aumento; potrebbe sembrare un dettaglio, ma in realtà si tratta di un aspetto importante, poiché esclude un reimpiego di eventuali accise sul tema. La strada virtuosa del rinnovamento del parco auto e della ricerca su auto a minori consumi, in sostanza, secondo Grillo non dovrebbe essere necessariamente finanziata dal maggior costo del carburante. L'attuale situazione, in sostanza, ricade nello scenario descritto dal comico genovese, e la mancanza di interventi statali sul trasporto pubblico non deve essere presa come scusa per differenziare l'ipotesi di Grillo da quanto sta realmente accadendo.
L'errore fondamentale di Grillo, in ultima analisi, è stato sottovalutare l'entità della crisi e dimenticare quel fenomeno di inerzia che sempre si verifica ogni qual volta la popolazione deve affrontare dei mutamenti - anche se in meglio - dello status quo. Il rapido incremento dei carburanti si è infatti accompagnato a risultati disastrosi per l'industria automobilistica, anziché spingere verso l'acquisto di auto meno inquinanti e meno dispendiose: in un'economia già provata dalla crisi, non restano risorse sufficienti ad affrontare investimenti di questo genere, si punta al risparmio immediato - o alla rinuncia di determinate spese - pur se si trtta di una scelta meno conveniente a lungo termine.
Se negli anni '90 questa evoluzione dell'economia nazionale poteva anche essere imprevista, ribadire il concetto nel 2010 è stato sicuramente esempio di miopia e, in ultima analisi, della ricerca di soluzioni di impatto mediatico ma di scarsa applicabilità. Secondo la definizione di Grillo stesso, puro populismo.

Dare valore politico alle parole di Beppe Grillo significa ogni volta muoversi su un percorso insidioso, a causa della molteplicità di ruoli che questi ricopre. Malgrado presenti sé stesso come un normale cittadino ed un comico, tuttavia, il suo ruolo ed il suo potere all'interno del MoVimento sono tali da obbligare ad una valutazione politica delle sue proposte e delle sue provocazioni.
Le parole di Grillo non possono essere equiparabili a quelle di Maurizio Crozza o di Luciana Littizzetto; Grillo ad oggi si comporta a tutti gli effetti come un leader di partito, che può disporre a proprio piacimento del simbolo del MoVimento 5 Stelle e ha piena di "scomunicare" i membri del partito cortocircuitando la base.
Malgrado tanto il comico genovese quanto il MoVimento 5 Stelle cerchino ciascuno di dichiararsi esterno e indipendentemente dall'altro, la realtà è che oggi Beppe Grillo è un leader politico.
E su tale base ha il diritto e il dovere che siano considerate le sue parole.

venerdì 16 marzo 2012

Palermo, la fine delle primarie?

Fabrizio Ferrandelli

Palermo è una ferita che sanguina ancora nel centrosinistra.
Martedì 13 marzo sembrava che potesse finalmente essere scritta la parola fine sulle elezioni primarie del capoluogo siciliano, sicuramente tra gli episodi più contestati e controversi - e senza dubbio politicamente più combattuti - di utilizzo di questo strumento di democrazia diretta nella sua pur breve storia nel nostro Paese.
Il Collegio di Garanzia per le Primarie di Palermo 2012 (Di Lello, Scaglione, Verde), infatti, ufficializzava il risultato delle primarie, dichiarando vincitore il trentunenne ex-IdV Fabrizio Ferrandelli con un margine risicatissimo sulla candidata ufficiale di PD, SEL e IdV Rita Borsellino.

Risultati delle primarie del centrosinistra
a Palermo (2012)

Poteva essere lecito sperare che la decisione ufficiale dell'organo di garanzia della consultazione potesse scrivere la parola fine sul mare di contestazioni e reciproche accuse che avvelenavano lo schieramento progressista all'indomani dei risultati ufficiosi delle primarie; non è tuttavia stato così, e per la prima volta - per lo meno in un caso così eclatante - una parte della coalizione potrebbe infrangere il vincolo sacro alla base delle elezioni primarie, ovvero il sostegno di tutti i partecipanti e di tutti i partiti al vincitore.

È vero che le primarie di Palermo non hanno certo brillato per fair play, né che siano state esenti da irregolarità. I tre candidati principali non si sono sottratti a reciproche accuse e veleni, di cui è stata vittima in particolar modo la Borsellino, che forte della sua visibilità e dell'appoggio ufficiale delle segreterie di partito era considerata un po' il candidato di riferimento da abbattere per aprire i giochi di una sessione di votazioni che vedeva tutti i partiti d'accordo sul suo nome.
Ed è soprattutto vero che la vittoria di Ferrandelli è maturata oltre i confini del centrosinistra, grazie all'appoggio attivo dei lombardiani; non per nulla Ferrandelli era ed è uno dei massimi esponenti della corrente del PD che vuole mantenere in Regione i legami con l'attuale Presidente. L'appoggio e la partecipazione di forze esterne al centrosinistra e ai suoi simpatizzanti è espressamente vietata dallo statuto delle primarie, ma a Palermo si è visto quanto questa norma sia inapplicabile - se non in casi particolarmente evidenti. Il sostegno di esponenti del terzo polo o del centrodestra verso Ferrandelli è infatti più una considerazione ex-post che un allarme legittimamente sollevato prima delle votazioni: è stato infatti in primo luogo l'elevatissimo numero di votanti a far scattare i dubbi sulla possibilità di inquinamento delle votazioni, ma più di tutto, secondo un vero cortocircuito logico, il principale sospetto dietro la vittoria di Ferrandelli... è proprio la vittoria di Ferrandelli!
Il fatto stesso cioè che il beneficiario della massiccia affluenza sia stato l'ex IdV viene visto come una prova del fatto che le consultazioni sono state in qualche modo truccate. Risulta infatti difficile pensare che se fosse stata Rita Borsellino a prevalere per un centinaio di voti ad oggi vi sarebbero così tante polemiche sulle primarie falsate...

Come ricostruisce Il Corriere del Mezzogiorno in un articolo del 15 marzo, il dominus dietro l'operazione di disconoscimento delle primarie sarebbe Leoluca Orlando, che già fu sindaco del capoluogo siciliano e dal 1985 al 1990 e poi dal 1993 al 2000, la prima volta con una coalizione imperniata intorno alla DC, la seconda volta nelle file del centrosinistra. Sarebbe stato infatti proprio Orlando a convincere il leader dell'Italia dei Valori Antonio Di Pietro a rinnegare la vittoria di Ferrandelli e schierarsi a favore di una candidatura della sconfitta Rita Borsellino al primo turno delle comunali. Ben presto SEL, una parte dei Verdi e la FdS si sono accodate all'IdV nel prendere le distanze da Ferrandelli e in un pressing sulla Borsellino: come era a questo punto scontato prevedere, una volta rotto l'argine, tutte le forze politicamente più lontane dalla visione di Ferrandelli si sono affrettate a prendere le distanze dal vincitore delle primarie.
Rita Borsellino stessa, come riporta un comunicato AGI del 14 marzo, pare essere disponibile ad una simile eventualità, attaccando a tutto campo Ferrandelli e mostrandosi pronta a dare ancora una volta battaglia con qualsiasi mezzo.

Ad oggi, l'unico sostegno a Ferrandelli viene - oltre che dalla numericamente trascurabile Monastra - dal Partito Democratico. La formazione di Bersani ha scelto di appoggiare senza riserve il vincitore delle primarie. Unico partito dotato della necessaria maturità per riconoscere l'esito delle primarie oppure esempio di cecità? O magari ancora fenomeno locale di grandi manovre a livello nazionale per stringere legami con il terzo polo? Non vi è molta chiarezza in merito, ed i segnali sono per certi versi contrastanti.
Da un lato è infatti innegabile che rispetto al caso di Napoli dell'anno scorso si sia seguita una strada completamente differente: nel capoluogo campano le primarie sono state annullate, ed il centrosinistra è arrivato con due candidati alle elezioni; in quello siciliano invece le primarie sono state validate, ed il risultato confermato. Questa differenza di comportamento, la diatriba se a Napoli vi fossero veramente irregolarità di più grave portata rispetto a Palermo oppure se il PD abbia in qualche modo avuto interesse a spingere per la vittoria di Ferrandelli è e sarà oggetto di polemica, ma vi sono alcune considerazioni che devono essere tenute in debito conto e che posssono aiutare a formulare un giudizio razionale. In primo luogo, il candidato ufficiale del PD era Rita Borsellino; addirittura, in subordine, il solo iscritto al PD tra i partecipanti alle primarie era Faraone; quindi, promuovere la vittoria di Ferrandelli non era certo la linea originale del partito. Anzi, essendo Ferrandelli sostenuto dall'ala veltroniana del PD, in opposizione a Bersani, rinnegarne la vittoria sarebbe stata una mossa coerente con quanto le lotte tra correnti hanno abituato negli anni.
Esclusa l'ieda delle manovre politiche, potrebbe restare l'idea di un appoggio cieco e incondizionato all'istituzione delle primarie, che vede il PD incapace di reagire all'idea di brogli e inquinamenti del voto. A parte che l'episodio di Napoli evidenzia come il PD sia anche in grado di annullare le primarie in determinate situazioni, la realtà dei fatti è che il regolamento delle primarie non è assolutamente in grado di inibire la partecipazione di simpatizzanti di altri schieramenti. Quando sono state indette le primarie, tutti i candidati e tutti i partiti ne hanno sottoscritto non solo l'accettazione del verdetto ma anche le regole di funzionamento. Lamentarsene ora, per di più a posteriori a fronte di un risultato sgradito, significa rinnegare non le primarie di Palermo, ma l'istituto in sé stesso.
In assenza di irregolarità riconosciute dallo statuto delle primari in grado di ribaltare l'esito del voto, riconoscere la vittoria di Ferrandelli da parte del PD è stata quindi la sola posizione dotata di logica, per quanto con ogni probabilità dolorosa in termini di consenso. Ferrandelli, secondo quanto accertato dagli organi di garanzia in assenza di prove contrarie, ha vinto secondo le regole delle primarie. Se queste regole sono troppo lasche o inadatte si può aprire un riflessione su come cambiarle, ma disfare ciò che è stato fatto in questo frangente suona più che altro come un semplice capriccio.
Soprattutto, fa bene il PD a non appoggiare un eventuale ritorno in campo di Rita Borsellino. Sostenere chi ha partecipato alle primarie senza vincerle significa schiaffeggiare in maniera veramente eclatante il giudizio degli elettori: poco importa che il corpo votante non fosse, secondo ogni probabilità, coincidente con i simpatizzanti di centrosinistra; considerate le regole delle primarie, i partiti hanno il dovere di sostenere le scelte del corpo votante. Se in quest'ultimo vi sono infiltrazioni è giusto prendere le adeguate contromisure, ma senza incrinare il vincolo di fiducia che rende le primarie una delel più brillanti intuizioni politiche degli ultimi anni.

Se Ferrandelli, nel nome di quella unità di centrosinistra che almeno a parole sembra intenzionato a perseguire, scegliesse di farsi da parte in favore di un nome esterno al circuito delle primarie, forse si raggiungerebbe davvero l'optimum. In caso contrario, l'unica, reale, prova di maturità politica consiste nel rispetto del verdetto delle urne, sempre che non emergano nuove prove di irregolarità che possano rimettere in discussione il risultato. Sono ancora vivi nella memoria gli strepiti di rigetto del risultato del 2006 da parte di Berlusconi, e le differenze tra destra e sinistra, forse, devono passare anche da qui.

martedì 13 marzo 2012

La strategia dietro la lotta all'evasione

Fotogramma di una pubblicità contro l'evasione fiscale

In principio fu Cortina D'Ampezzo.
La notizia, proprio alla fine del 2011, fu quasi uno schock - benefico - per un Paese che con il decreto Salva-Italia stava appena iniziando a metabolizzare le nuove tasse ed i sacrifici che lo Stato andava a chiedere ai cittadini per sopperire anni e anni di gestione politica inefficiente, clientelare se non addirittura corrotta.
Non sarebbe errato affermare che, in un panorama fatto di IMU e tagli alle pensioni - in cui la patrimoniale sui beni di lusso venne adeguatamente mimetizzata e annacquata - il blitz della Guardia di Finanza nel paradiso dorato di Cortina D'Ampezzo fu visto da molti come l'unico segnale di quell'equità di cui il Governo si era fatto portavoce al momento del suo insediamento.

Non mancarono naturalmente le polemiche, alcune sulla falsariga berlusconiana di una Guardia di Finanza che danneggia le attività imprenditoriali con i proprio controlli, altre volte più che altro a far risaltare il valore puramente simbolico di simili gesti, più che il loro reale contributo alla lotta all'evasione fiscale.
Il Governo non ha tuttavia fatto marcia indietro, e dopo i controlli di cortina questo primo scorcio del 2012 ha visto gli agenti della Finanza impegnati in numerose altre operazioni in luoghi-simbolo del Paese - in tutti i sensi - come Portofino, Sanremo, ma anche i locali della movida di Milano ed i mercatini di Napoli. In attesa naturalmente dell'estate e delle località balneari più rinomate.

Con l'eccezione del caso napoletano, i cui livelli di evasione fiscale imponevano comunque che si strappasse il sipario su un vero e proprio segreto di Pulcinella, la Guardia di Finanza ha scelto di colpire dei veri e propri templi del turismo di alta fascia, dimostrando nella sua azione tanto un'efficace coordinazione, quanto il perseguimento di una vera e propria finalità mirata all'eradicazione non dell'evasione tout court, quanto di un certo tipo di evasione.

È infatti possibile individuare tre tipologie di evasione, anche se solo due costituiscono effettivamente reato e sono quindi oggetto dell'azione della Guardia di Finanza e degli altri enti preposti dello Stato.
La prima tipologia di evasione può essere definita "di sussistenza", ed è generalmente figlia della crisi. L'identikit di un simile evasore è generalmente quello di un imprenditore medio-piccolo, strozzato dalla crisi, probabilmente in debito verso i propri fornitori e in credito verso clienti - tra cui spesso si trova anche la pubblica amministrazione - che non lo pagano. L'evasione fiscale in questi casi risulta una scelta quasi di sopravvivenza, necessaria per non dichiarare il fallimento dell'attività andando a devastare ulteriormente un tessuto sociale già sconvolto. Diventa molto difficile esprimere un giudizio morale su questa tipologia di evasione: si tratta chiaramente di un evento illegale, dettato tuttavia da situazioni estreme: pesa a questo proposito la condotta della vita contributiva in anni meno concitati degli attuali, la presenza o meno dello Stato tra i debitori del cittadino, ed una serie di altri fattori che possono portare anche i più accaniti detrattori degli evasori fiscali a ripensare alle proprie posizioni.
Vi è poi una seconda tipologia di evasione, particolarmente odiosa in quanto coinvolge gli ambienti che genericamente possono essere ricondotti al mondo del lusso. Si tratta di un'evasione certamente non di sopravvivenza, basta sullo spregio delle regole piuttosto che sulla loro semplice infrazione; si tratta dell'evasione non già di chi vuole restare a galla, ma di chi vive secondo uno schema differente dalle persone comuni, in una vera e propria torre d'avorio al cui interno le normali regole e leggi non valgono.
Infine, vi sono non già i fenomeni di evasione, ma le scappatoie legali da parte di chi ha il potere di dettare le regole. Il mondo della politica, ma naturalmente non solo: banche, assicurazioni, in generale i grandi gruppi finanziari. Lo scandalo sui tassi agevolati per i mutui degli onorevoli, esploso appena pochi giorni fa, è solo la punta di un iceberg fatto di privilegi, scappatoie e clausole che costruiscono scudi legali che costituiscono forme di protezione assolutamente impensabili per le persone comuni. Commissioni, sconti dalle tasse, canali privilegiati, sono molte e ramificate le forme in cui i veri enti di potere si costruiscono per legge un castello di vantaggi e privilegi che li separa nettamente dal resto del mondo. È ovviamente scontato il fatto che la maggior parte dei capitali su cui lo Stato potrebbe mettere le mani sena riuscirvi passano attraverso questi canali.

Che il Governo Monti affrontasse il reale problema dei privilegi della finanza era e resta utopistico. Ha ragione chi in questo vede in Monti un diretto emissario delle banche, non tanto per ragioni complottistiche, quanto perché l'attuale Presidente del Consiglio è espressione e portavoce di un sistema - in cui crede e su cui d'altra parte si regge la stabilità economica nel mondo - in cui sono le banche e in generale la finanza a controllare l'azione politica.
D'altra parte è impossibile non notare un netto stacco tra Monti e il suo predecessore Berlusconi. Se Monti può considerarsi interessato a difendere gli interessi della terza categoria di evasioni, Berlusconi appare nell'immaginario collettivo come il perfetto esponente del secondo mondo. Con una politica fatta di condoni, ostacoli legislativi all'azione giudiziaria e depenalizzazioni il Cavaliere aveva spudoratamente protetto il mondo di un'evasione fiscale intesa come attacco allo Stato e alla sua sussistenza, come parassitismo di coloro che - dipendenti pubblici e pensionati - le tasse sono costretti a pagarle e come in generale parte di un disegno complessivo di depotenziamento della figura dello Stato.

Vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto è naturalmente questione di sensibilità o di partigianeria politica, ma non si deve rinunciare al confronto tra le politiche di questo esecutivo e quelle dei governi precedenti. In questo senso, la scelta di Monti di intervenire sui santuari del lusso e del bel vivere italiano non è - malgrado le apparenze - un populismo di facciata, ma un'accorta strategia che pone un serio accento su quali sono i casi più eclatanti e oggettivamente odiosi di evasione fiscale, andando a fare un'adeguata opera di controllo e prevenzione. Se anche un blitz non potrà fare miracoli, è innegabile che avere alcune giornate in cui gli incassi dei negozi sono stati completamente registrati per via della costante vigilanza dei finanzieri servirà come pietra di paragone per eventuali rendiconti futuri, rendendo più facile scoprire dove si annidano i fenomeni di evasione.
Vedere il bicchiere mezzo pieno, in una simile situazione, non significa quindi peccare di eccessivo ottimismo.

venerdì 9 marzo 2012

Una riflessione sulle primarie

Il manifesto delle primarie PD 2009

L'esito delle elezioni primarie di Palermo, che hanno incoronato l'ex dipietrista Ferrandelli come candidato unico del centrosinistra per la corsa alla poltrona di sindaco, ha scatenato un nuovo terremoto ai vertici delle forze progressiste italiane. Il PD, ma in questa occasione anche l'IdV e SEL, aveva infatti sostenuto la candidatura di Rita Borsellino, ad eccezione dell'ala dei cosiddetti rottamatori di Matteo Renzi che aveva invece dato il proprio appoggio a Davide Faraone.
Bene aveva fatto Bersani a ribadire, in una sua partecipazione alla trasmissione Che tempo che fa, che le primarie sono - scendendo al succo del suo discorso - niente più e niente meno che lo strumento che il Partito Democratico, e in misura minore la stessa coalizione di centrosinistra come accaduto a Palermo, mette a disposizione dei propri simpatizzanti affinché questi possano rinnegare le scelte della dirigenza e imporre persone di maggiore gradimento.

È tuttavia innegabile che le modalità di svolgimento delle primarie giocano un ruolo fondamentale nella definizione del risultato delle consultazioni stesse, e possono fare la differenza tra un immaturo rifiuto dell'esito delle votazioni e delle legittime riflessioni sull'utilizzo e sull'eventuale evoluzione del mezzo.
Il caso di Palermo, così come quello di Napoli nel 2010, appartiene a questa seconda categoria: più che l'esito in sé del voto, con la risicatissima e contestata vittoria di Ferrandelli, sono gli eventi di contorno a sollevare importanti questioni su come si siano svolte le primarie nel capoluogo siciliano, questioni che sfociano sulla regolamentazione delle primarie stesse e sulle possibili alternative che ne possono scaturire.

Generalmente un'altissima affluenza viene considerata un segno del successo delle primarie. I volti trionfanti della dirigenza del centrosinistra alla notizia del superamento dei tre milioni di votanti alle primarie nazionali del 2007 e del 2009 ne sono di certo un simbolo.
Eppure non vi sono limitazioni di sorta a chi può votare alle primarie. Un'altra affluenza alle elezioni primarie non è necessariamente un fattore da interpretare come positivo: può significare consenso ma anche contaminazione, può essere indice di reale entusiasmo e partecipazione quanto dell'intervento di altre forze politiche che utilizzano lo strumento partecipativo per pilotare l'esito del voto. La certezza su quale sia l'interpretazione corretta in caso di altissima affluenza arriva soltanto dopo le elezioni effettive, quando si misura la reale forza del candidato vincitore delle primarie in contrapposizione con i suoi reali avversari politici.
Quello della libertà di accesso al voto è un tema estremamente serio e di difficile soluzione. Le primarie statunitensi, da cui sono mutuate quelle italiane, prevedono il voto ai soli iscritti al partito, trasformando l'appuntamento in una specie di congresso di partito a partecipazione diretta. Il Partito Democratico, e in generale il centrosinistra, ha scelto di non replicare questo aspetto delle consultazioni d'oltreoceano, aprendo la porta, oltre che ai militanti, anche generalmente a tutti i simpatizzanti.
Ciò che diventa complesso, in questa situazione, è definire proprio chi sono i simpatizzanti. Gli unici documenti di partecipazione alle primarie sono i - leggendari - registri dei parteicpanti alle consultazioni precedenti, che tuttavia non possono in nessun caso fornire né un'indicazione esaustiva sui simpatizzanti né tantomento avere alcun valore ufficiale: una persona è libera di cambiare schieramento a proprio piacimento in qualsiasi momento della propria vita.
È tuttavia vero che le primarie del centrosinistra, così come sono concepite in Italia, sono non solo un'opportunità per il centrosinistra stesso, ma anche per il centrodestra: esse infatti offrono a tutti i cittadini l'opportunità di scegliere il candidato dello schieramento progressista, e non solo all'elettorato di tale area. Un cittadino di centrodestra ha quindi la possibilità di scegliere colui che ritiene "il meno peggio" dello schieramento avverso, oppure la persona che ritiene avrà meno probabilità di vittoria nelle elezioni reali contro il candidato della propria coalizione.
Si tratta di certo di un uso distorto delle primarie, ma un uso comunque plausibile in quanto diretta conseguenza delle regole così inclusive previste per questa tipologia di elezione.

Quale potrebbe dunque essere la soluzione? Aumentare il contributo offerto dai votanti? Avrebbe il nefasto effetto di trasformare in privilegio una cosa che ora è considerata praticamente un diritto. Blindare le consultazioni ai soli iscritti? Sicuramente vi sarebbero garanzie in termini di tracciabilità che consentirebbero di risolvere in maniera definitiva i problemi precedentemente descritti, tuttavia una simile scelta avrebbe implicazioni tanto pratiche quanto di immagine che renderebbero questa scelta estremamente peggiore dell'attuale configurazione.
In primo luogo, e in un periodo di forti sentimenti antipolitici, la riduzione della partecipazione ai soli iscritti verrebbe interpretata come una scelta puramente d'apparato, scollata dal mondo reale della società civile; il tutto sarebbe enfatizato da un cambio delle regole rispetto ad una situazione di precedente apertura: il concetto stesso della restrizione, più delle nuove regole in sé stesse, sarebbe considerato un modo per rinchiudere il partito in sé stesso, per prendere le distanze dai cittadini e ribadire una volta di più il concetto di casta.
Il secondo problema costituisce invece l'amplificazione di un tema già attuale e scottante, ovvero l'utilizzo delle primarie come regolamento di conti tra personaggi e fazioni interne al partito o alla coalizione. Notoriamente tra i militanti è infatti più probabile individuare persone più familiari con le meccaniche di funzionamento dei partiti che con gli ideali che ne dovrebbero guidare gli intenti, e quindi pronte a orientare il proprio voto più per questioni di equilibri interni da mantenere o da spezzare che per scegliere un candidato realmente valido per l'incarico che dovrebbe ricoprire nella pubblica amministrazione. Ridurre per regolamento la partecipazione alle primarie ai soli iscritti significherebbe quindi trasformare in maniera definitiva questo tipo di elezioni in un vero e proprio congresso di partito, con il suo circo di truppe cammellate e di pugnalate alle spalle.
La presenza della società civile, in proporzioni nettamente maggiori rispetto agli iscritti, funge quindi da sistema di protezione delle primarie stesse contro le storture che deriverebbero da un'eccessiva chiusura del partito in sé stesso.

La realtà è che le primarie, come ogni altro strumento democratico basato sulla reciproca fiducia, sono un'istituzione fragilissima, la cui immagine è terribilmente facile da sporcare con accuse di brogli, di inquinamenti di vario genere o di voto di scambio. Per di più, non essendo un appuntamento istituzionale regolamentato dalla legge, vengono meno tutti quei meccanismi di controllo che regolano il normale svolgimento delle elezioni reali.
I problemi delle primarie, come descritto, possono avere un'origine esogena rispetto alla platea dell'area politica chiamata al voto, attraverso l'intromissione di votanti estranei, oppure endogena, attraverso un utilizzo distorto dello strumento da parte delle dirigenze dei partiti. I due problemi hanno soluzioni diametralmente opposte e inconciliabili, l'una verso il controllo e la chiusura, l'altra verso l'apertura all'esterno.
Ciò che appare paradossale, ad oggi in Italia, è che i rischi provenienti dalla partecipazione esterna appaiono di gran lunga inferiori come portata a quelli che genererebbe una chiusura delle partecipazioni. I danni di immagine per il PD e per il centrosinistra sarebbero incalcolabili, e lo stesso strumento delle primarie si svuoterebbe di qualsiasi significato, per diventare un mero rituale senza alcun valore pratico, utile solo a misurare quale tra i tanti capi e capetti abbia il maggior seguito all'interno di un mondo sempre più chiuso in sé stesso, in lento ma ineluttabile disfacimento.

Se il prezzo per evitare questo lugubre scenario è un Ferrandelli scelto con l'apporto decisivo dei sostenitori di Lombardo, ben venga Ferrandelli. Ma prima di regolamentare le primarie restringendone i criteri di partecipazione, serve una prova di maturità che il mondo partitico italiano è ben lungi dal dimostrare.

sabato 3 marzo 2012

Italia-Spagna, è pareggio!

La Borsa di Milano

La giornata di venerdì 2 marzo 2012 ha le carte in regola per essere ricordata come una data simbolo della crisi economica mondiale, almeno per quanto riguarda il nostro Paese.
Il mercato, per la prima volta da quando la crisi si è trasferita ai debiti sovrani, ha ritenuto l'Italia un Paese di pari affidabilità rispetto alla Spagna.

Spread italiano e spagnolo (2011-2012)

Differenziale tra lo spread italiano e quello spagnolo (2011-2012)

Il primo grafico mostra l'andamento dello spread di Spagna e Italia nel 2011 ed in questo primo scorcio di 2012, mentre il secondo si focalizza sulla differenza tra i due dati, evidenziando il differenziale di fiducia goduta dai titoli decennali dei due Paesi sui mercati finanziari.
Come si vede, l'Italia partiva ad inizio anno con un credito di fiducia piuttosto consistente rispetto agli iberici, credito che con alti e bassi è perdurato fino al mese di luglio. In quel periodo si parlava sempre crisi finanziaria, di esposizione delle banche e di ripercussioni sull'economia reale, ma le entità statali - salvo la Grecia e marginalmente Irlanda e Portogallo - non erano ancora state direttamente coinvolte come attori protagonisti della crisi. I migliori dati italiani in termini tanto di produzione e solidità industriale quanto di occupazione, nonché di esposizione dei principali istituti di credito, erano quindi garanzia della migliore predisposizione del nostro Paese a fronteggiare la crisi, a patto di avere una politica in grado di mettere in atto le contromisure necessarie per combattere la progressiva corrosione dell'economia reale via via che la spirale del debito si avvitava su sé stessa.
Il mese di luglio ha segnato un vero punto di svolta nel rapporto tenuto dai mercati finanziari con i due paesi; le vicende politiche italiane di quei mesi sono ben note, la famosa manovra in appena quattro giorni, la sottovalutazione della portata della crisi ed i frenetici correttivi che si sono succeduti durante l'estate. In quel frangente l'Italia ha perso tutto il vantaggio di credibilità accumulato sulla Spagna, arrivando ad avere il 5 agosto un differenziale negativo rispetto agli iberici, cosa che non accadeva dal 21 aprile 2010, un tempo finanziariamente lontanissimo in cui lo spread era saldamente sotto i 100 punti base. Dopo un breve controsorpasso, il 22 agosto 2011 la Spagna nuovamente superava l'Italia per iniziare un lungo periodo di maggior credito nelle preferenze dei mercati che solo oggi può considerarsi concluso.

Italia e Spagna hanno compiuto scelte politiche profondamente differenti in termini qualitativi ma piuttosto ravvicinate a livello temporale, coincidenza che permette di eseguire raffronti che consentano, opportunamente filtrati dalle variabili macroeconomiche comunque indipendenti dalle scelte politiche contingenti, quale Paese abbia intrapreso la strada più vantaggiosa in termini di credibiità sui mercati, che poi significa in minori interessi pagati dalle casse dello Stato agli investitori sul mercato obbligazionario.
Le forze politiche italiane, tra un Berlusconi in grado comunque di sopravvivere per pochi voti in Parlamento ed un'opposizione poco desiderosa di trovarsi a sua volta ai posti di comando in un periodo così delicato, hanno - sotto l'abile regia del Presidente della Repubblica - deciso di non affrontare una campagna elettorale ed una sessione di votazioni, arrivando a convergere sul nome di Mario Monti. Il 12 novembre 2011, constatata l'esistenza di una maggioranza numerica ma non più politica alla Camera dei Deputati, si dimetteva il premier Silvio Berlusconi, ed appena quattro giorni dopo, il 16 novembre, prendeva vita il Governo Monti I, un esecutivo tecnico sostenuto da una maggioranza parlamentare comunque derivante dalle elezioni politiche del 2008. In Spagna, al contrario, il 29 luglio 2011 il premier Zapatero decideva per le proprie dimissioni, fissando la convocazione dei comizi elettorali e aprendo la strada alle elezioni anticipate del 20 novembre, poi vinte dal centrodestra di Rajoy.
Due scelte diametralmente opposte, che tuttavia fissano alcune date chiave utili per seguire alcuni confronti importanti.

Come accennato, nei mesi di luglio e agosto la Spagna compì il suo sorpasso sul nostro Paese, e proprio il 29 luglio arrivò l'annuncio delle elezioni anticipate spagnole. I mercati premiarono il coraggio democratico della Spagna? La risposta è in realtà negativa per due ragioni: in primo luogo, alla notizia dell'annuncio, ovvero nei giorni immediatamente seguenti, non si registrò un calo dello apread iberico; in secondo luogo, il forte calo che si ebbe a partire dal 5 agosto non coinvolse solo la Spagna, ma anche numerosi altri Paesi europei, suggerendo un'origine esogena alla scelta politica spagnola.
Sempre restando a Madrid, è altrettanto vero che non vi sono evidenti sommovimenti dello spread nella terza decade di novembre, a seguito cioè dell'appuntamento elettorale che determinò il passaggio della Spagna dal centrosinistra di Zapatero al centrodestra di Rajoy. Nuovamente, un brusco calo dello spread vi fu diversi giorni dopo, nella prima decade di dicembre, ma l'origine di un simile effetto, che nuovamente coinvolse gran parte dei Paesi europei, è da ricercarsi altrove, ed in particolare a Roma.
Sostanzialmente, l'andamento dello spread spagnolo si è dimostrato impermeabile agli appuntamenti elettorali e ai cambi di governo, così come non si sono evidenziati dei veri scalini in salita o in discesa in funzione di determinati provvedimenti presi dal vecchio o dal nuovo governo. Questo tende a classificare lo spread spagnolo come un derivato di funzioni macroeconomiche ben ancorate alla reale situazione del Paese, e pertando - pur tendendo a variare in accordo con altri Paesi Europei - soggetto a modificazioni endogene piuttosto lente e ponderate.

Radicalmente differente si è dimostrata la situazione italiana. Il 9 novembre 2011, tre giorni prima delle dimissioni di Berlusconi, lo spread dei titoli decennali italiani toccò il massimo dalla nascita dell'euro, ad un terrificante valore di 552 punti base. Il gap di fiducia tra i BTP e i titoli benchmark, i Bund tedeschi, era tale che Roma riusciva a piazzare le proprie obbligazioni solo promettendo olte 5 punti percentuale e mezzo di interesse in più rispetto a Berlino. Il differenziale con la Spagna, in quel momento, era a 142 punti.
Il giorno della nascita del Governo Monti, il 16 novembre, esattamente una settimana dopo, lo spread italiano era a 519 punti ed il differenziale con la Spagna ridotto a 60. Il valore del dato non sta tanto nel calo dello spread, comunque limitato, quanto nell'aver innescato una tratta discendente in controtendenza con la Spagna e altri Paesi europei. Nella staffetta tra Berlusconi e Monti, in sostanza, l'Italia ha individuato un fattore endogeno in grado di ridurre lo spread dei propri titoli di Stato.
Altrettanto interessante è l'analisi del picco negativo del differenziale tra i titoli toccato il 6 dicembre. Esaminando ancora una volta le differenze a sette giorni, ovvero mettendo a confronto il 6 dicembre con il 30 novembre, si registrò un calo dello spread per l'Italia pari a 106 punti base, risultato condiviso - anche se non nelle proporzioni - anche da altri Paesi Europei ma la cui origine è da situare nel nostro Paese, ed in particolare con la presentazione della manovra economica soprannominata Salva-Italia.
La chiusura dell'anno si è dimostrata un periodo particolarmente critico per l'economia italiana, non per i valori assoluti dello spread quanto piuttosto per il differenziale con la Spagna, che il 30 dicembre toccò il picco massimo di 201 punti base: sembrava in quel momento che l'Italia si fosse completamente sganciata dal treno dei Paesi europei in grado di cavarserla e fosse ormai condannata a fare la fine della Grecia. Nuovamente, tuttavia, erano fattori interni alla situazione politica del Paese a determinare impatti sui dati economici; in particolare, particolarmente forti in quel periodo erano gli interrogativi sulla tenuta dell'esecutivo tecnico, se i partiti avrebbero accettato di approvare misure altamente impopolari o se avrebbero giocato al ribasso annacquando le proposte del Governo o addirittura decretando la fine dell'esperienza Monti.
Il passaggio al 2012 può invece essere considerato come un passaggio estremamente soddisfacente per l'Italia, in quanto lo spread si è progressivamente ridotto agli attuali 311 punti ed il differenziale con la Spagna si è azzerato. Come mai questa inversione di tendenza? Non è realistico parlare di miglioramenti economici significativi in Italia, così come non vi sono stati peggioramenti schock nell'economia spagnola. Vi sono stati tuttavia importanti rivolgimenti politici: Monti si è dimostrato più stabile di quello che i mercati inizialmente prevedevano, nel rapporto con i partiti che lo sostengono si è visto come sia il Governo ad avere il coltello dalla parte del manico nei confronti dell'opinione pubblica internazionale, grazie al proprio bagaglio di credibilità e rispetto.
Il deficit di credibilità internazionale, osservando il rovescio della medaglia, può tuttavia essere interpretato come un segno di solidità della nostra economia, i cui fondamentali, se supportati da un esecutivo autorevole, sono nettamente migliori dei pessimi differenziali ottenuti nei mesi precedenti.

L'andamento dello spread nel corso degli ultimi anni evidenzia una realtà quindi da tenere in considerazione: la politica, contrariamente a quanto si crede, ha ancora un grande impatto sull'economia. La credibilità del ceto politico, unita alla capacità percepita di riformare il Paese per adeguarlo a controbattere la crisi economica, gioca un ruolo cruciale nella fiducia che i mercati accordano agli Stati. L'accoglienza che i mercati hanno fornito a Monti, confrontata con il precedente andamento dello spread sotto Berlusconi e Tremonti, è un chiaro campanello di allarme per le forze politiche, centrodestra in primis: lo scarso appeal dei partiti nell'opinione pubblica è un sentimento condiviso sulle piazze finanziarie internazionali.
Questa esperienza di governo tecnico costituisce quindi anche per la politica un'importante occasione di rinnovamento, sotto la cupola protettiva di una figura di grande spessore. Eppure, anziché affrontare con autocritica il problema, la soluzione proposta dall'apparato partitico è quella di trascinare Monti in avventure di governo successive alla elezioni del 2013, nella speranza che il suo nome possa continuare ad essere di garanzia in Italia e all'estero, ma al contrario trascinando con sé il professore della Bocconi nel proprio vortice di sfiducia e rigetto da parte dell'opinione pubblica.
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