giovedì 8 settembre 2011

IVA al 21%, ecco cosa significa

IVA, Imposta sul Valore Aggiunto

Anche se la manovra economica di questo travagliato 2011 italiano pare scritta sulla sabbia e non si possono trarre considerazioni certe fino alla sua approvazione definitiva - e forse nemmeno in quel momento - l'incremento di un punto dell'IVA è sicuramente uno dei temi che merita maggiore approfondimento, sia in termini generali sia perché costituisce una delle principali voci di entrata della versione attuale della legge.

L'IVA, acronimo per Imposta sul Valore Aggiunto, è un'imposta disciplinata dalla legge italiana con il Decreto del Presidente della Repubblica 633/1972 e a livello europeo dalla Direttiva 2006/112/EC in materia fiscale.
L'Imposta sul Valore Aggiunto si configura nel panorama fiscale come un'imposta sui consumi che va a colpire l'incremento di valore di un bene o servizio nelle sue differenti fasi di lavorazione. Dalla definizione si deduce in maniera evidente che laddove tale catena di fasi si interrompe, generalmente al consumatore finale, si individua il reale pagatore dell'imposta.

Esempio di ricarico dell'IVA

Lo schema riportato mostra un esempipo di funzionamento dell'IVA. Come si vede, per ciascun passaggio del ciclo l'importo da versare allo Stato consiste unicamente nell'aliquota sulla differenza di valore tra acquisto e vendita.
Se però si guarda alla provenienza di tutti questi soldi, si vede come ciascun anello della catena faccia di fatto pagare la propria IVA a quello successivo, fino al consumatore finale, i cui 60 € di fatto coprono i 20 € del produttore, i 16 € del primo intermediario ed i 24 € del secondo intermediario, per i quali l'IVA costituisce quindi un esborso temporaneo tra il momento della produzione o dell'acquisto e quello della vendita.

Le considerazioni che si possono trarre da questo esempio sono molteplici, soprattutto se legate all'attuale situazione economica del Paese.

L'aliquota dell'IVA è legata unicamente al prodotto; attualmente in Italia sono in vigore tre aliquote:
  • 4% (aliquota minima), prevista per i generi di prima necessità, come alimentari e stampa
  • 10% (aliquota ridotta), prevista per i servizi turistici, alcuni generi alimentari ed alcune tipologie di operazioni edilizie
  • 20% (aliquota ordinaria), prevista per tutto quanto non ricade nelle due precedenti categorie
L'aliquota IVA è quindi dipendente unicamente dal prodotto venduto o dal servizio erogato, mentre il reddito o la ricchezza di chi la deve pagare non sono considerati elementi rilevanti ai fini del calcolo dell'imposta.
L'IVA è dunque un'imposta regressiva, perché se è vero che colpisce in maniera assoluta tutti i cittadini nel medesimo modo, dal punto di vista percentuale penalizza le fasce più povere della popolazione in maniera più pesante rispetto a quelle più ricche.
L'incremento dell'IVA di un punto percentuale, in special modo sull'aliquota del 20% non legata ai beni di prima necessità, comporterà quindi con buone probabilità una non irrilevante contrazione dei consumi: seguendo il semplice ragionamento che dieci impiegati comprano dieci televisori e un dirigente ne compra uno, incidere sul potere d'acquisto dei ceti più esposti deprimerà il mercato in maniera maggiore di un'incisione sul potere d'acquisto dei ceti più abbienti.

In seconda battuta, le norme europee sull'IVA lasciano liberi i singoli Stati di imporre la propria aliquota, purché compresa tra il 15% ed il 25%.
L'incremento di un punto percentuale dell'IVA in Italia, ad aliquote invariate all'estero, renderà in generale la nostra filiera produttiva e di trasformazione meno appetibile e meno competitiva rispetto a quella di altri Stati.
Un'azienda sceglierà con meno facilità un fornitore italiano rispetto ad uno straniero, se dovrà corrispondere una quota di IVA maggiore; al tempo stesso un'azienda italiana avrà maggiori difficoltà a produrre un prezzo competitivo rispetto ad una straniera, se all'interno di quel prezzo sarà contenuto un punto percentuale di IVA in più.

Proprio per questi effetti depressivi sulla capacità di acquisto dei consumatori e per la perdita di competitività delle imprese rischia di venir meno - sia pure in maniera indiretta - il caposaldo di un'imposta della tipologia dell'IVA, ovvero la sua trasparenza per le aziende.
Un'azienda, di fatto, recupera l'IVA quando vende un prodotto o eroga un servizio; se, per via della contrazione dei consumi, prodotti e servizi restano invenduti l'azienda si trasforma di fatto nel consumatore finale, e come tale pagatore finale dell'IVA.
Il rallentamento del ciclo economico si tradurrebbe quindi in un onere per le imprese anche da questo punto di vista, con ulteriore effetto depressivo sull'azienda medesima.

Infine, è da tenere in conto il fenomeno dell'evasione e dell'elusione fiscale. Dal momento che l'IVA viene applicata al pagamento di una prestazione, e che tali prestazioni vengono genericamente tracciate unicamente tramite scontrini, ricevute e fatture, ne consegue che questa imposta è estremamente facile da evadere. Un incremento dell'aliquota senza adeguate contromisure dal punto di vista della lotta all'evasione rischia quindi di trasformarsi in un incentivo verso l'evasione. Poiché tuttavia l'IVA generalmente si evade nell'ambito di un'evasione della tassa sul reddito (IRPEF, IRES o IRAP), il danno provocato all'erario ne risulta enormemente amplificato.

Se dunque l'incremento dell'aliquota IVA dal 20% al 21% non pare avere effetti benefici per l'economia del Paese, quali sono i razionali che hanno voluto tale provvedimento nella legge finanziaria?
La crisi italiana appare scomponibile in due fattori: il primo riguarda naturalmente la parte prettamente finanziaria, lo spread, i tassi d'interesse e il nostro debito a livelli apocalittici. A questa difficile situazione finanziaria si somma però una pesante crisi dell'economia reale, caratterizzata da stagnazione dei consumi, difficoltà di accesso al credito da parte delle aziende, famiglie che vedono ridursi progressivamente il potere d'acquisto a causa dei blocchi agli scatti dei contratti.
Una manovra destinata a fare cassa immediata come quella dell'innalzamento dell'aliquota IVA fa fronte - per un po', almeno - al primo aspetto della crisi, ma non risolve e anzi aggrava il secondo.

Potevano tuttavia esserci alternative? Misure in grado di fare cassa senza incidere sui consumi?
Un primo ragionamento può venire da articoli come quelli apparsi su La Repubblica o Il Tempo sulle differenze di reddito tra operai e dirigenti: differenze molto maggiori di quelle legate alla tassazione. Adeguare quindi la proporzione tra i regimi fiscali a quella sui redditi sarebbe una prima operazione per colpire grandi concentrazioni di reddito ricavando discrete quantità di introiti colpendo una fascia pressoché minima della popolazione. In parte il governo ha seguito questa strada con il contributo di solidarietà, una misura però troppo timida per essere qualcosa di più che mera propaganda.
In secondo luogo colpire l'accumulo di capitale, favorendone la mobilità e l'investimento: anche se il termine patrimoniale suona brutto ed evoca l'immagine di uno Stato vampiro che succhia al cittadino contribuente quanto questi ha messo via in una vita di risparmi, i patrimoni immobiliari di grandi società, banche e assicurazioni - per non dimenticare la Chiesa - potrebbero essere una fonte non indifferente di introito per lo Stato, se tenuti bloccati... oppure potrebbero dare respiro ad esempio ad un mercato immobiliare che non vuole saperne di venire incontro ai consumatori in caso di loro ingresso sul mercato, in entrambi i casi con vantaggi per l'economia.
Infine, considerata l'origine finanziaria della crisi, un intervento fiscale legato proprio alle operazioni di mercato avrebbe avuto il duplice effetto di rendere meno convenienti gli attacchi speculativi e l'impatto mediatico di una sorta di giustizia sociale.
Il tutto senza citare gli interventi sull'evasione e sull'elusione fiscale, che difficilmente vengono presi in considerazione dagli organismi internazionali in termini di cassa in quanto non possono garantire rientri certi.

Come si vede, quindi, alternative possibili e preferibili ce n'erano, ma il Governo italiano ha preferito la strada dell'aumento dell'IVA.
È plausibile ritenere che siano state ragioni meno legate alla salute del Paese quelle che hanno mosso burocrati e politici del Ministero, ragioni forse più legate a strategie elettorali e al tentativo di non scontentare segmenti di popolazione storicamente e socialmente amici alle forze di maggioranza.
Una politica ancora una volta quindi poco lungimirante, interessata al potere e alla conservazione del potere più che alla reale ripresa dell'economia e alla stabilità dei conti dello Stato sul lungo termine. Una politica che però un'Italia ormai schiacciata da interessi sul debito troppo elevati e un'economia stagnante non si può proprio permettere.

1 commento:

  1. Post utile e interessante. Mi sono occupato sul mio blog un paio di volte sull'argomento. Mi preme sottolineare che il maggior peso IVA lo vengono ad avere quelle famiglie che non possono restringere i consumi perché già consumano per beni essenziali. Quelli che possono restringere su qualche consumo voluttuario riescono ad avere un danno più contenuto.
    saluti

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