venerdì 3 dicembre 2010

Educazione alla libertà

Feodor Chaliapin Jr. in DER NAME DER ROSE

DISCLAIMER: nell'articolo che segue sono riportati e commentati passaggi del libro IL NOME DELLA ROSA (1980), di Umberto Eco.

Reduce dall'ennesima rilettura del capolavoro di Umberto Eco IL NOME DELLA ROSA, sono rimasto colpito - anche se non sorpreso - nel trovare tratteggiati nel libro alcuni temi di stringente attualià politica.
In che modo l'ascesa della Lega Nord ed i valori della sinistra possono trovare posto nelle vicende di Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk? In che modo l'abbazia sede delle tetre vicende narrate da Eco può richiamare i palazzi della politica italiana?
In realtà, limitati ciascuno al nostro hic et nunc, spesso affrontiamo i problemi quotidiani senza riuscire a cogliere alle loro spalle quei temi universali che, con mezzi e forme particolari, si ripresentano sempre uguali in ogni tempo ed in ogni luogo.

Uno dei grandi meriti di Eco è stato quello di saper ricollocare questi temi nella cornice medievale del suo romanzo, e proprio grazie a questa collocazione è possibile al lettore rielaborare in maniera personale il percorso inverso, e vedere così con occhi nuovi il contingente che lo circonda.

Di particolare significato, sia all'interno del romanzo in sé stesso, sia perché strettamente legato alla situazione macropolitica italiana, è il dialogo risolutivo che si svolge nel penultimo capitolo tra Guglielmo da Baskerville e Jorge da Burgos, nella stanza segreta della biblioteca. A questo link ho riportato testualmente tale dialogo.

Guglielmo e Jorge sono figli del loro tempo, le loro parole e le loro argomentazioni sono altrettanto medievali, ma le loro parole sono lo spunto per affrontare il tema del potere e della libertà.
Su questo piano, le argomentazioni di Jorge non sono obsolete: sicuramente, non tutti coloro che vivono all'interno di uno Stato sono a conoscenza del perché di ogni legge, né sanno lo spirito e la filosofia secondo cui si legifera; la maggior parte della gente, al contrario, rispetta la legge sostanzialmente per il timore della punizione e per la vaga intuizione che essere parte della comunità è preferibile ad esserne fuori.
La paura, in sostanza, è ancora e sempre una delle motivazioni chiave per il rispetto della legge e di conseguenza per il mantenimento dell'ordine.

D'altra parte, è innegabile la funzione liberatoria della risata e del ridicolo, espresse comunemente dalla satira ma il cui effetto lo si vede forse più nella vita quotidiana.
Una persona messa in ridicolo non avrà speranze di essere presa sul serio, di poter comunicare i propri ragionamenti e le proprie idee: passerà sempre e comunque il concetto che quella persona non deve essere temuta né tantomeno rispettata, ma solo presa come un buffone.

Il ridicolo è pertanto un'arma estremamente efficace, in grado di far perdere il rispetto anche per cose che tale rispettano lo meriterebbero. Il ridicolo non nasce secondo logica e non si afferma secondo logica, colpisce per cortocircuiti mentali.

Ha quindi ragione Jorge dicendo che una simile arma, posta nelle mani di tutti, sarebbe deleteria? Ecco, secondo me sì e no.
La legge, infatti, può essere accettata per paura o per scelta. Il ridicolo, se è in grado di liberare dalla paura, non è però a mio avviso in grado di sciogliere i convincimenti di una persona.
L'arma del riso sarebbe quindi benefica se servisse a sciogliere dai tabu per permettere un'indagine razionale.
Dire che "l'Incarnazione è ridicola", prendendo ancora spunto da Jorge, diventa un fatto benefico qualora, superato il tabu dell'accettazione supina del mistero della fede, si pervenisse ad un'analisi personale e razionale che porti ad accettare o a rifiutare il fatto in sé stesso.
Diventa invece un fattore di pericolo e instabilità se la liberazione dal tabu non conduce ad altro, ma diventa sinonimo di anarchia.

Un conto è quindi usare il ridicolo come arma per combattere la paura ed il proibito allo scopo di scoprire la verità dietro l'imposizione.
Ma il ridicolo senza una propensione all'analisi, all'indagine, al ragionamento, all'esperienza costruttiva è sinonimo di anarchia, un'anarchia - e questo dice giustamente Jorge - non contrastabile dalle armi della logica e del buon senso.

Applicando questa logica ai concetti di Stato e di patto sociale, cosa accadrebbe se scomparisse la paura della sentenza, della multa e del carcere?
Quante persone seguirebbero la legge perché realmente convinti della sua utilità, e quante invece tenderebbero a mettere in pratica la legge della giungla?
Proprio questa, in parte, sembra purtroppo essere la situazione dell'Italia, che pare uscita proprio dal quadro a tinte fosche disegnato da Jorge.

Umberto Bossi (Lega), Renata Polverini (Presidente
della regione Lazio), Mario Borghezio (Lega), Silvio
Berlusconi (Presidente del Consiglio)

Ingenuità, insulti, provocazioni: la politica della II Repubblica ha visto in questo senso una forte degenerazione; la comunicazione politica, e con essa la politica, si è ridotta a prevaricazioni, frasi ad effetto e mantra ripetuti fino ad essere accettati come verità dogmatica.
Quell'espressione di libertà chiamata democrazia ha dato nel nostro Paese alcuni tra i suoi frutti più amari, portando a posti di potere le peggiori espressioni del comune sentire: anziché essere un faro verso cui tendere, la nostra classe politica è diventata l'assolutorio pantano degli italici vizi, l'assicurazione della connivenza e dell'interesse.

In che modo siamo giunti a questa deprecabile situazione? Le cause e le concause sono molteplici, ma è possibile individuare un punto fermo: la progressiva delegittimazione delle istituzioni, la costante perdita di auctoritas da parte di chi è delegato a governare il Paese.
Inefficienza, malaffare, interesse privato, corruzione: sono queste le cause che hanno portato alla grande sfiducia verso lo Stato negli anni '90. Il lavacro di Tangentopoli e successivamente l'avvento della II Repubblica e del berlusconismo hanno visto - o forse solo aggiunto alla lista precedente - nuovi elementi al quadro. Per la prima volta abbiamo avuto esponenti dello Stato esplicitamente partecipi nella progressiva demolizione dello Stato.
Atti come legittimare il mancato pagamento delle tasse, in generale (Corriere della Sera, La Repubblica) o come arma politica contro un Paese governato dagli avversari politic di turno (Corriere della Sera) o come i condoni fiscali (ad esempio la Legge 289/2002) ed edilizi (come il Decreto Legge 269/2003, convertito in Legge 326/2003) hanno il nefasto effetto di rendere lo Stato un ente poco serio, di cui è possibile fregarsene e che non è quindi necessario rispettare.

In questo vuoto di potere è emerso in tutta la sua crudezza lo spaccato della società italiana: nel momento in cui la paura ed il rispetto sono caduti, è emerso impietosamente quanto siano poco numerosi coloro che hanno scelto il rispetto delle regole e la convivenza civile, e quanti invece siano stati coloro che hanno dato la propria preferenza all'anarchia, all'individualismo e all'antipolitica, o per meglio dire ad una politica autodistruttiva.
Valori come l'onestà, l'abilità, l'esperienza sono stati rovesciati e svuotati. Non importa quanto siano sensate le parole che uno dica: il "vincitore" è colui che ha l'ultima parola nella discussione, anche se la ottiene con il dileggio o l'insulto.
Come sosteneva Jorge, la pancia ha prevalso sul cervello, e arrivano più lontano coloro che sono in grado di gridare più forte: ecco come si spiega il successo di formazioni come la Lega Nord o l'Italia dei Valori, oltre che, ma il discorso qui si farebbe più complesso, il MoVimento 5 Stelle.

Possibile che quindi, alla fine Jorge fosse, in termini di idea della società, il "buono" e Guglielmo il "cattivo"? Possibile che Eco abbia voluto giocare quest'ultimo tiro ai suoi lettori?
In realtà tra le due opzioni presentate da Jorge, la società totalitaria e la società pseudo-anarchica, esiste una virtuosa via di mezzo, che trova il suo compimento nell'apparente ossimoro dell'educazione alla libertà.

Educare alla libertà non significa fare in modo che la gente scelga una determinata opzione, ma mettere la gente nella migliore posizione per fare la propria scelta.
Questo significa offrire un'informazione corretta in termini di cause e conseguenze, di modo che siano disponibili alla cittadinanza i dati corretti sui quali costruire la propria analisi, e la gamma completa degli effetti delle scelte fatte.
Significa favorire l'interesse e la partecipazione, come già Tocqueville insegnava.
Significa non rigettare la dissacrazione dell'autorità, ma non idolatrare la dissacrazione come mezzo di conseguimento della vittoria politica.

È un obiettivo plausibile, è un obiettivo raggiungibile?
Di certo gli ostacoli sono molti, primo fra tutti un ceto politico, poco trasparente e attaccato a posizioni di rendita, che salvo poche eccezioni verrebbe progressivamente spazzato via da una presa di coscienza collettiva; e tale ceto controlla tuttora i principali mezzi di informazione, facendo risaltare in maniera dolorosa la necessità impellente di una separazione tra il potere politico ed il mondo dei media.
Come non citare poi quelle formazioni politiche che, puntando su slogan al tempo stesso banali ed efficati, hanno costruito la loro fortuna su presentazioni parziali e distorte della realtà.
La politica italiana, lontana dall'essere in grado di fornire una soluzione, si presenta in realtà come parte del problema. La soluzione non può quindi che venire dal basso, con una progressiva eliminazione chirurgica degli elementi nocivi e con la valorizzazione di quanto di buono esiste - ed esiste - nello scenario politico.
Probabilmente l'idea di una società libera e consapevole è solo un'utopia, e d'altra parte il maggior peccato di Frate Guglielmo, ricorda il suo discepolo Adso, era l'orgoglio... ma è un obiettivo verso il quale è necessario tendere, prima che le già provate strutture sociali - materiali e immateriali - che costituiscono l'ossatura del nostro Paese siano irrimediabilmente compromesse.

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